Grande e preoccupata era l'attesa del popolo della sinistra per l'esito delle elezioni spagnole, tenutesi il 20 dicembre scorso. La posta in gioco era molto alta perché, dopo la drammatica esperienza greca, un
risultato modesto di Podemos, più in generale della sinistra spagnola, avrebbe chiuso per un lungo periodo le possibilità di mettere in discussione l'egemonia delle politiche liberiste sull'Europa, con il conseguente drammatico aggravamento delle
già critiche condizioni a cui sono costretti i popoli europei dalla ricette liberiste. Tenere aperta la possibilità di un altra europa era ed è condizione indispensabile per porre un freno all'involuzione autoritaria delle democrazie europee,
al dilagare del razzismo e soprattutto alle crescenti decisioni di risolvere militarmente le contraddizioni aperte con il sud del mondo e in particolare con il mondo arabo, dalla criminale decisione nel 2003 di Bush, Blair e Aznar di scatenare guerre preventive
per esportare la democrazia e chiudere col terrorismo, che inevitabilmente quella decisione alimentò. La paura di non farcela era molto diffusa. Si temeva, con qualche ragione, che la punizione inferta dalla Troika al governo greco, per aver provato
a mettere in discussione l'austerità imposta, avrebbe spinto gli/le spagnoli/e ad un voto prudente, penalizzante per Podemos e Izquierda Unida, le forze che si proponevano di seguire l'esempio di Tsipras. Gli ultimi sondaggi poi, confermavano le preoccupazioni,
ulteriormente dilatate da una ripresina economica in Spagna, comunque la più sostenuta d'Europa, che avrebbe potuto favorire la continuità delle politiche di austerità, con qualche ritocco puramente di facciata. Certo se forti erano i
timori altrettanto persuasive erano però le ragioni che invece spingevano a favore di un cambiamento profondo. In questi quattro anni il piano di riscatto della Spagna, preteso da Bruxelles e accettato dal governo Rajoy, ha impoverito strati sempre
più ampi della popolazione spagnola, dilatato la disoccupazione che ha raggiunto la cifra record del 21% , con intere generazioni che hanno come unica prospettiva di lavoro, quello precario per pochi mesi. Non solo. Ad un peggioramento delle
condizioni di vita delle persone, sia per quanto riguarda il reddito, sia per ciò che concerne le prestazioni fondamentali dello stato sociale, si è accompagnata una sistematica distruzione dell'ambiente: l'aria delle principali città
spagnole è pesantemente inquinata, con conseguente aumento di malattie e relativi decessi nella popolazione anziana. Non solo, l'intera Spagna, per l'uso dissennato del territorio, che il governo Rajoy ha autorizzato, soffre di un drammatico dissesto
idrogeologico, che espone, ad ogni pioggia, la popolazione ad alluvioni e frane. Entrambi i fenomeni sono aggravati dall'aumento degli eventi estremi, causati dal cambiamento climatico, contro il quale il governo Rajoy non ha fatto nulla, anzi ha perseguito
politiche che lo aggravano, rilanciando un modello energetico fossile e bloccando lo sviluppo delle fonti rinnovabili, avviato invece con successo da Zapatero. Non si può tacere fra le ragioni forti per cacciare il governo Rajoy il pesante
arretramento sul fronte dei diritti e delle libertà, con l'approvazione della ley mordaza, la legge bavaglio, con la quale per un semplice picchetto non violento
si può finire tre anni e un giorno in galera. Infine qualche motivo in più per cambiare lo avevano le donne, le più colpite dalla crisi in termini di occupazione e perdita di servizi, ma anche per l'inesistenza di politiche e relative
risorse contro la violenza machista o per il costante tentativo di liquidare la legge sull'aborto e con essa il diritto all'autodeterminazione sulle proprie vite e sui propri corpi. Fin dalle prime proiezioni si è capito che le ragioni del cambiamento
avevano prevalso sulle paure di un salto nel buio. Gli/le spagnoli/e hanno deciso di dare forza a Podemos e al suo progetto di trasformazione sociale, penalizzando invece il PP, ma anche i Socialisti e Ciudadanos, proprio per essere risultati poco credibili
come forze di cambiamento. Che il Partito Popolare di Mariano Rajoy avrebbe pagato nelle urne per le sue politiche era apparso chiaro già nelle elezioni amministrative del maggio scorso, che videro la cacciata del PP dal governo di tutte le principali
città della Spagna. Pur rimanendo il PP il partito più votato, milioni di persone il 20 dicembre non l'hanno più votato, facendogli perdere 61 seggi. Di questo tracollo della principale forza politica delle destre spagnole non ne beneficiano
però i socialisti di Pedro Sánchez. I motivi sono evidenti. Non potevano avere la credibilità sufficiente per essere loro un'alternativa alle destre, perché troppo compromessi con
le scelte liberiste europee, sulle quali, non va dimenticato, con la decisione di introdurre in costituzione l'obbligo del pareggio di bilancio, si consumò tristemente l'esperienza del governo socialista di Zapatero. Inoltre a chi si ribellava alle
ingiustizie l'opposizione fatta dal PSOE al governo Rajoy in questi quattro anni è apparsa debole e di maniera. Sarà anche vero che il partito popolare ha governato in questi quattro anni godendo
di una maggioranza assoluta in parlamento, ma è altrettanto vero che il partito socialista non lo si è visto né alla testa, ma nemmeno in coda, alla diffusa resistenza sociale contro le politiche del governo. L'elettorato li ha quindi
continuati a identificare come parte del sistema, spesso anche coinvolti nello schema corruttivo, che in Spagna, come in Italia, caratterizza il sistema politico consolidato. La fine del bipartitismo e di conseguenza l'inadeguatezza della legge elettorale
che lo sosteneva e dello stesso patto costituzionale del '78, che diede vita alla transizione post-franchista, era anch'essa ampiamente annunciata dal voto amministrativo del maggio scorso, con l'irruzione sulla scena politica di Podemos e Ciudadanos. Ciò
che fino all'ultimo è rimasto incerto è stato chi fra le due forze emergenti avrebbe avuto più consenso. E' evidente che se a prevalere fosse stato Ciudadanos, il partito voluto dalla destra spagnola, come risposta al movimento del 2011
degli indignati e alla conseguente nascita di Podemos, in Spagna non sarebbe cambiato nulla, solo interpreti più giovani e presentabili delle stesse politiche: stessa subalternità all'europa liberista, stessa apologia del mercato e stessa volontà
di ridimensionare i diritti del lavoro e le prestazioni fondamentali dello stato sociale. Il voto ha premiato Podemos. Oltre sei milioni di persone lo hanno votato, più del 20% dell'elettorato, facendone la terza forza politica, vicinissima alla seconda,
i socialisti. E' probabile che un'apertura maggiore del gruppo dirigente di Podemos, alla proposta di formare liste di unità popolare, con Izquierda Unida e altre forze di movimento, in tutte le circoscrizioni e non solo in Catalogna, Galizia e Valenzia,
avrebbe fatto di Podemos il partito più votato dopo il PP, sancendone così l'egemonia sull'intera sinistra spagnola, a scapito del PSOE. La lista di Unidad Popular- IU raccoglie oltre un milione di voti, che producono però solo due deputati
a causa dell'iniqua legge elettorale (basti pensare che al partito popolare bastano 78.000 voti per eleggere un parlamentare mentre a Unidad Popular IU ne servono ben 500.000). Il voto sancisce quindi il declino di Izquierda Unida come polo di riferimento
di quanti non si identificano nel riformismo moderato del PSOE perché continuano a lottare per una società diversa da quella capitalista. IU cede gran parte del suo elettorato a Podemos, pagando la sua difficoltà a misurarsi con
il movimento degli indignati del 2011, un movimento che percepì questa lontananza e diffidenza e quindi accomunò anche Izquierda Unida nello slogan “non ci rappresentate” gridato durante la manifestazione che circondò il parlamento
spagnolo. Comunque il futuro di Izquierda Unida verrà deciso in un prossimo congresso che si dovrebbe tenere a giugno. L'appuntamento è convocato sulla base di una proposta di Alberto Garzón,
il candidato alla presidenza del consiglio della lista Unidad Popular-IU alle elezioni passate. Garzón col suo documento, su cui non c'è accordo, chiede di dare continuità alla ricerca dell'unità
con Podemos, per formare un nuovo soggetto politico alternativo al riformismo moderato del PSOE.
Così come il successo di Tsipras in Grecia stimolò una grande discussione nell'insieme della
sinistra europea e in particolare in quella italiana è del tutto evidente che il medesimo copione si ripeterà per quello di Podemos in Spagna. E' sicuramente una opportunità perché può offrire spunti utili a superare i problemi
che ancora ostacolano nel nostro paese la formazione di un nuovo soggetto politico alla sinistra del Partito Democratico. Sicuramente molti, fra coloro che con molti sforzi e molta fatica cercano di ricostruire in Italia un nuovo soggetto unitario della sinistra,
si staranno interrogando su come abbia fatto Podemos, in pochi anni di vita, a raccogliere tanti consensi, fino a contendere al partito socialista l'egemonia sull'insieme della sinistra. L'interrogativo che più circola è il seguente: per quale
motivo in Spagna l'indignazione contro le politiche liberiste e la corruzione dilagante si sente rappresentata e sostiene Podemos, mentre, in Italia, la ribellione alle disastrose politiche sociali, economiche ed ambientali del governo Renzi, è raccolta
dal Movimento 5 Stelle di Grillo, un partito, che oltre alla denuncia della corruzione del sistema politico, esprime un progetto di cambiamento sociale moderato e tutto interno al liberismo?
Non aiuta a rispondere
a questa domanda il tentativo che spesso si fa, anche a sinistra, di spiegarsi il successo di Podemos, cercando le similitudini fra il partito di Pablo Iglesias e il movimento di Beppe Grillo, accomunandoli nel calderone populista. Si vuole dimostrare con
questa operazione che non c'è spazio alla sinistra del PD, se non per populismi inconcludenti e pericolosi per l'ordine democratico. Non spiega granché neanche capire Podemos attraverso una meticolosa ricostruzione della biografia politica e
delle influenze culturali ed ideologiche che hanno caratterizzato la formazione di gran parte dei suoi leader politici, a cominciare da Pablo Iglesias. Qualcuno può forse pensare che sei milioni di spagnoli/e hanno votato Podemos perché gran
parte del suo gruppo dirigente è ispirato dal filosofo argentino Ernesto Laclau e dalla sua lettura del concetto di egemonia in Gramsci, oppure perché Iglesias dichiara superato il concetto destra-sinistra o perché ha letto Bye bye
socialism di Tony Negri? Qualcosa questa ricerca sicuramente spiega, ad esempio la formazione politico culturale del gruppo fondatore, ma non risponde alla domanda del perché in Spagna la ribellione alla gestione liberista della crisi ha come
punto di riferimento Podemos e non le destre o i movimenti populisti.
Forse fa capire meglio cos'abbia spinto oltre il 20% del popolo spagnolo a votare Podemos analizzare il contesto sociale che ha
spinto Pablo Iglesias, Iñigo Errejón, JuanMonedero, Carolina Bescansa, Pablo Echenique, Teresa Rodríguez e tanti altri/e alla decisione
di costruire un nuovo partito. Tanta forza e consenso si spiegano se si parte dal movimento degli indignati del 2011, di cui pressoché tutti i fondatori di Podemos furono fra i promotori e i protagonisti. E' proprio da una riflessione su come
dare continuità a quel movimento che partorisce l'idea di Podemos come partito, una organizzazione cioè in grado di dare una risposta al bisogno di rappresentanza di quel movimento, ben evidenziato dallo slogan que
no nos representan, non ci rappresentate. Iglesias e gli altri fondatori, contrariamente a quanto le loro biografie politiche indurrebbero a pensare, rifiutano l'idea di una gestione diretta della politica da parte dei movimenti, in
perenne e frontale contrapposizione con le istituzione e il sistema politico. Un movimento che ha saputo innescare conflitti sociali e culturali che ha modificato i rapporti di forza e le idee correnti nella società spagnola, non può reggere
e durare senza un partito e senza proporsi e soprattutto realizzare conquiste parziali. Una lotta non la si può aprire e non chiudere più, aspettando la presa del potere. Non si può perché fra l'oggi e il domani c'è in mezzo
la repressione, la doppia esistenza che caratterizza la vita di ognuno, per cui una lotta la si deve aprire e poi chiudere e poi riaprire, cercando ogni volta che la si chiude che i rapporti di forza che la chiusura definisce, siano favorevoli al movimento.
E' questa la ragione che spinge Iglesias e gli altri a costruire Podemos, cioè uno strumento che da un lato dà rappresentanza al movimento e dall'altro gli offre uno sbocco politico, puntando a conquistare la maggioranza del paese ad un progetto
di trasformazione. Sei milioni di voti sono la diretta conseguenza della priorità che il partito si è dato, che non è stato fare liste elettorali, ma dare continuità alle lotte sociali e all'indignazione della società. I
volti delle ragazze e dei ragazzi che nel 2011 occuparono strade e piazze si sono rivisti in questi anni nei cortei di donne che hanno lottato e vinto contro la decisione più reazionaria del governo Rajoy la messa in discussione del diritto all'autodeterminazione
delle donne. Si sono ritrovati nei presidi per impedire gli sfratti e non a caso oggi uno di quei volti, quello di Ada Colau, è il volto della nuova sindaca di Barcellona. Ed ancora si sono rivisti nelle mobilitazioni in difesa della scuola e sanità
pubblica, nelle lotte per un nuovo modello energetico rinnovabile e poco bisognoso di energia ed infine in quelle per la libertà offesa dalla ley mordaza. E' da qui che vengono quei sei milioni
di persone. Il successo è anche figlio di scelte tattiche oculate, come quella di non essere ossessionati dalle scadenze elettorali, dove spesso sono naufragati i tentativi di costruire un nuovo soggetto della sinistra in Italia. Dopo la presenza
alle europee, usata come cartina di tornasole sulla credibilità del progetto partito, credibilità data da oltre un milione di voti, si decide di non presentare Podemos alle comunali del 27 maggio scorso. Podemos si mette a disposizione
dei movimenti che hanno lottato nelle varie città e favorisce la presentazione di liste di unità popolare, che conquistano non solo Barcellona, ma Madrid, Valenzia e buona parte delle maggiori città spagnole. Vien da chiedersi perché
un partito che solo un anno prima aveva raccolto oltre un milione di voti non si presenta alle comunali? Proprio per evitare di costruire una forza elettoralistica che avrebbe snaturato il processo di costruzione del partito, riciclando personaggi politici
poco credibili e concentrato gran parte del lavoro nel fare le liste. Se si concorda che è da questo contesto sociale che viene un consenso tanto grande a Podemos e al suo progetto di trasformazione della Spagna, bisognerà trarne qualche conseguenza,
ad esempio chiedersi se le difficoltà e il prevalere di settarismi e difesa delle piccole identità, con cui procedono spesso i tentativi di costruire un nuovo soggetto politico della sinistra in Italia, non nascano proprio dalla mancanza di contesto
sociale. Senza questo ancoraggio sociale forte è molto difficile sfuggire a operazioni di corto respiro e quasi sempre finalizzate a concorrere alle elezioni. Anche nel nostro paese però la conflittualità sociale non manca, dalle
lotte per il lavoro, a quelle ambientaliste contro le grandi opere e le trivelle, dagli insegnanti e studenti contro la demolizione della scuola pubblica alle lotte per i diritti sociali e civili. Inoltre in Italia un movimento simile a quello spagnolo del
2011 c'è stato e negli stessi mesi nei quali le piazze spagnole erano invase dagli indignati: quello sui beni comuni che seppe conquistare nei referendum la maggioranza degli italiani in difesa dell'acqua pubblica e impedì il ritorno al nucleare.
Fu una straordinaria esperienza in cui migliaia e migliaia di giovani consumarono la loro prima esperienza politica, costruendo tavoli in ogni città per raccogliere le firme necessarie per realizzare i referendum e poi conquistando i voti per vincerli.
Non fu solo spontaneità, ma anche uno straordinario momento di rivitalizzazione dei sindacati e forse di molta parte dei soggetti impegnati nella costruzione del nuovo soggetto. E' noto che la crescita di quel movimento fu bloccata dagli scontri
violenti nella manifestazione nazionale di Roma, convocata proprio in contemporanea con quella degli indignati di Madrid. Oggi gran parte dei giovani protagonisti di quei referendum sono rifluiti nell'associazionismo e nel volontariato, lontani dalla
politica, soprattutto senza rappresentanza politica. Forse la costruzione di un nuovo soggetto politico della sinistra trarrebbe grande impulso da un tentativo di ricoinvolgere questi soggetti, le loro lotte, il loro agire locale.
Con questi risultati si può affermare che il primo obiettivo che Podemos si era posto alla sua nascita, dare rappresentanza politica al movimento, è per ora acquisito, acquisizione ben espressa dalla folla che ha accolto al grido si ci rappresentate i parlamentari di Podemos, nel giorno dell'insediamento. Assai più problematico appare l'altro obiettivo e cioè conquistare la maggioranza del popolo spagnolo ad un progetto di trasformazione
della società, portando al governo di Spagna le idee e i progetti pensati nelle piazze occupate nel 2011. E' del tutto evidente che il risultato elettorale non porta al potere quei progetti, apre però spazi ad un governo che ne raccolga parti
rilevanti. La domanda su cui Podemos, nel suo complesso, si è interrogato dopo il voto è se la forza che l'elettorato gli ha dato sia sufficiente per avviare il cambiamento della Spagna. In altre parole decidere se cacciare le destre e
tentare un governo con i socialisti ed Izquierda Unida o in alternativa sottrarsi ai necessari compromessi che inevitabilmente sarebbe necessario fare per governare con i socialisti e altre forze, rischiando le elezioni anticipate. Senza strumentalità
ed aperti ad una trattativa vera, Podemos ha scelto la strada di dare un governo al paese, costruendo una alleanza con i socialisti e Izquierda Unida, aperta al voto di forze nazionaliste non secessioniste, come il partito nazionale basco. L'intesa, sbirciand
appare facilmente raggiungibile sul puntare nei primi cento giorni di governo a risolvere le emergenze sociali: cessazione degli sfratti, blocco del taglio di luce e gas alle persone in difficoltà economiche, l'eliminazione dei ticket sanitari,
la conferma del salario minimo e nuovo sostegno alla lotta contro l'inarrestabile violenza machista. Una vera e propria agenda sociale di emergenza, che faccia capire con chiarezza alle persone il senso di marcia del nuovo governo gli interessi che vuole
colpire e quelli che decide di tutelare, raccogliendo così la voglia di cambiamento espressasi nel voto. Il confronto sarà decisamente più difficoltoso quando si dovrà verificare se c'è una volontà comune di mettere
in discussione quelle politiche di austerità su cui da Bruxelles sono giunti già due pesanti moniti, con richieste di nuovi cospicui tagli. Le difficoltà dell'intesa aumenteranno quando il confronto si estenderà alle riforme costituzionali,
cioè alle proposte di Podemos di inserire nel nuovo patto costituzionale i diritti sociali come la casa, istruzione e sanità pubbliche e il lavoro, una riforma della legge elettorale e della giustizia e la fine della porta
girevole, grazie alla quale spesso i ministri al termine del loro mandato diventavano membri dei consigli di amministrazione di grandi imprese. Infine il punto più spinoso e cioè il riconoscimento della plurinazionalità
della Spagna e il diritto a decidere dei territori come tentativo di soluzione del problema catalano. C'è uno scenario dove si intersecano questioni sociali e questioni nazionali. Al centro un nuovo progetto di paese che reclama uno stato federale
e l'inizio di un processo costituente. La proposta di Podemos è perfettamente viabile, ma è del tutto evidente che una risposta positiva da parte dei socialisti incontra grandi e comprensibili resistenze di molti dei suoi dirigenti territoriali,
sia per meschine ragioni di potere (fare fuori l'attuale segretario Pedro Sánchez), ma anche per ragioni vere e cioè che un'alleanza con Podemos ed Izquierda Unida comporterebbe di per sé,
per il partito socialista, scelte in netta discontinuità con quelle compiute negli ultimi anni: dal rapporto con chi governa l'Europa, finora di obbedienza e destinato a diventare conflittuale in caso di alleanza con Podemos, alle questioni della
crisi e delle ricette di politica economica e sociale con cui si pensa di risolverla, dalle questioni ambientali e lotta al cambio di clima ai probleni del lavoro. Larga parte del gruppo dirigente socialista preferisce una soluzione di unità nazionale,
cioè un governo di larghe intese con Ciudadanos e il PP, isolando Podemos. Le pressioni per questa soluzione di continuità sono fortissime, a cominciare da quelle europee, che prima avevano tentato di influire sul voto, con la minaccia di riservare
alla Spagna lo stesso trattamento dato alla Grecia e successivamente, dopo le elezioni, con la richiesta di tagli alla spesa sociale per oltre 9.000 milioni di euro. La situazione è aperta a tutte le soluzioni, comprese le elezioni anticipate
che al momento sembrano l'opzione temuta da tutti ma la più probabile. Nel loro comitato federale del 30 gennaio i socialisti hanno riconfermato l'indisponibilità ad appoggiare, anche solo astenendosi, un governo PP e Ciudadanos, ma contemporaneamente
hanno posto condizioni pesanti al segretario per avviare la trattativa con Podemos, in parte disinnescate dalla proposta di Sánchez di sottoporre al voto degli iscritti sia le alleanze con cui governare
che le proposte programmatiche. Le prossime settimane saranno decisive e ci diranno se la Spagna avrà un governo di continuità o di cambiamento, oppure se si dovrà ricorrere a nuove elezioni.
Massimo Serafini