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La Coscienza del Limite - Fondazione Iotti- Roma 7 luglio 2022
Intervento di Fulvia Bandoli La Coscienza del Limite - Fondazione Iotti- Roma 7 luglio 2022 Uno dei
concetti per me più fecondi che hanno in comune il pensiero femminista e quello ecologista è proprio quello
di “coscienza del limite”. Dovessi definirlo in breve direi che è il contrario esatto dell’onnipotenza. E ancora che si tratta di un concetto applicabile a molti terreni e discipline : alla scienza e alla tecnica che pur essenziali e capaci di scoprire e risolvere tanti problemi dell’
umanità non possono comunque dare risposte a tutto; alla
politica che se si concepisse come limitata sarebbe sicuramente miglioredi come è diventata oggi; alla qualità dello sviluppo che dovrebbe considerare prima di tutto i limiti di ciò che la terra può
sostenere e di ciò che non può essere sostenibile, perché il pianeta è uno solo e noi stiamo consumando come se fossero due; al rapporto tra i sessi che dovrebbe essere sempre fondato, per un ogni uomo,sul limite invalicabile della libertà femminile; e da ultimo anche alla vita quotidiana, al come viverla o al come lasciarla, perché ogni giorno
noi facciamo i conti con le nostre tante possibilità ma anche con i nostri innumerevoli limiti. Fu nel 1976 che cominciai ad imparare cosa fosse la coscienza del limite, durante i mesi seguenti il gravissimo incidente di Seveso quando fuoriuscì dalla fabbrica chimica Icmesa una notevole quantità
di diossina. Fu Laura Conti, allora Consigliera Regionale Pci in Lombardia, la prima a capire entità e implicazioni di quel disastro. Una maestra per noi ecologisti, tra le migliori, e anche partigiana durante la resistenza ,scienziata, medica, gattara eccentrica e molto libera.Donna straordinaria e non abbastanza ricordata e valorizzata. Stette in quelle zone molte settimane, accanto ai cittadini e ai lavoratori, e soprattutto alle donne, analizzando i danni provocati all’ambiente ( tutte le case della Zona Rossa furono abbandonate e i terreni inquinati raccolti e tombinati) e
i rischi per le donne in gravidanza, conducendo in porto una battaglia difficile per ottenere l’aborto terapeutico per chi lo avesserichiesto, e aprendo cosi la strada ad una discussione più generale e nazionale sulla possibilità di una Legge sulla Interruzione di maternità. E oltre questo seppe in tempi brevi proporre
in sede nazionale una Legge contro i grandi rischi industriali che metteva norme di prevenzione e limiti precisi, affinché disastri simili non si ripetessero. La Direttiva Seveso sui grandi rischi divenne poi Legge Europea ed è tuttora vigente.
Ma sulla coscienza del limite, il salto più grande nella riflessione delle donne del Pci si
concretizzò 20 anni dopo , nell’Aprile del 1986, con l’incidente devastante alla centrale nucleare di Chernobyl,
in Unione Sovietica. Mentre il partito tacque e restò come imbambolato perché al Congresso di Firenze (solo un mese prima) per 11 voti aveva bocciato gli emendamenti degli ambientalisti Pci contro il nucleare in Italia, le donne comuniste parlarono e assai forte e soprattutto agirono. Prima aderirono alla Manifestazione della Legambiente convocata pochi
gg dopo, ma soprattutto Livia Turco portò le donne comuniste alla manifestazione convocata da tanti gruppi del femminismo italiano
contro il nucleare e in quel primo incontro forse si svilupparono anche le relazioni che poi portarono, l’anno dopo, alla stesura
e al confronto esteso in tutta Italia attorno alla Carta delle Donne che segnò il primo vero dialogo tra Pci e Femminismo. Ma il momento più significativo e di elaborazione politica e culturale fu proprio il Convegnoindetto nell’autunno di quell’anno, dalla Sezione femminile del Pci dal titolo “Scienza
e potere , coscienza del limite”. Gli atti furono pubblicati in un Quaderno allegato alla Rivista Donne e Politica e
raccoglie gli interventi di trenta tra scienziate e scienziati, donne della politica, urbanisti e urbaniste, biologhe, mediche
e filosofe. L’ho riletto in questi giorni e vi assicuro che
contiene riflessioni interrogativi e proposte attualissimeanche sulle grandi questioni aperte ancora oggi sui limiti dello sviluppo. Anche oggi io interpreto la realtà attraverso la “coscienza del limite”, e lo faccio perchè finora non ho trovato
chiavi migliori di questa. Per
farmi capire provoa riportare il
ragionamento ai giorni nostri, pur se per pochi minuti. Giorni fa, una cara amica, Bianca Pomeranzi, mi
chiedeva : ma tu hai mai vissuto un incrocio di contraddizioni brucianti come quelle di ora? No, le ho risposto senza esitazione, non l’ho mai vissutoprima. E credo
non lo abbiate mai vissuto neppure voiche siete qui oggi. Provo a metterle velocemente
in fila: i virus, non solo il Covid, ma tutti virus che si sviluppano sempre più numerosi e che passano spesso dagli animali agli esseri umani generando
malattie e stavolta una tremenda Pandemia. Non c’entra forse anche il modo con il quale da tanti anni
alleviamo intensivamente molti animali,quanta chimica usiamo per farli crescere prima, senza che vedano la luce del sole? O dei modi sommari della macellazione e della conservazione in molti paesi del mondo? Forse anche noi esseri umani muteremmo
geneticamente se ci costringessero in condizioni di vita come quelle. La Guerra contro l’ Ucraina e tutte le altre guerre, la prima scatenata da Putin un dittatore che disprezza la democrazia e sogna di rifare l’impero zarista, e Erdoganun altro dittatore che annienta i Curdi e che per farlo ricatta la Nato e l’Europa che accettano il ricatto, e l’Arabia Saudita che ha ridotto
lo Yemen a un inferno sulla terra, e la Siria e le tante altre guerre cosiddette “minori” , ma che per coloro che le vivono sono immani tragedie e perdite di ogni cosa e spesso
della vita. Il Cambio climatico, la siccità e la desertificazione crescenti, solo in Italia nell’ultimo anno ci sono stati 41 eventi estremi, ultimo il crollo di un ghiacciaio sulla Marmolada, l’anno scorso i 50 gradi toccati ad Agrigento, e a quelle temperature si muore. Gli anziani soprattutto, a meno che non li vogliamo rinchiudere in grandi centri con aria condizionata a vivere come in una teca. Come vogliamo vivere nel futuro? Rinchiusi? La cecità, l’incapacità dei governi di cambiare modello di sviluppo e soprattutto gli interessi di grandi lobbies e
multinazionali qui ci hanno portato. Ad un punto che pare quasi di non ritorno. Dopo 33 anni dal primo Trattato internazionale che prevedeva di diminuire le emissioni non solo nessuno le ha diminuite ma riapriamo il carbone, e l’Europa con un pessimo voto decide
che gas e nucleare sono energie green! Una brutta pagina. Il riarmo massiccio e generalizzato di tutti Paesi del mondo con un vertiginoso aumento delle spese militari,dopo una lunga stagione che invece era stata caratterizzata da un lento ma progressivo disarmo. E gli Usa che guidano questa classifica del riarmo, trasformati spesso in un far west da persone squilibrate,
fondamentaliste e razziste che armate fino ai denti uccidono in luoghi pubblici e scuole. Sono questi i principali esempi, caratterizzati proprio da quella che io chiamerei totale “incoscienza del limite”. E che rendono la fase che viviamo un crocevia cosi unico e spaventevole. Qualcuna si
chiedeva prima se siamo in un momento regressivo o progressivo. Progressivo sicuramente no, mi sentirei di dire con una certa sicurezza, anche se so che spesso dopo momenti regressivi ne arrivano altri progressivi che vanno comunque costruiti. Vedo
bene che ci sono anche oggi movimenti giovanili e femminili su questioni
cruciali, e associazioni civiche e reti di persone che si muovono. Ma ogni movimento,
lo sappiamo per esperienza, ha bisogno ad un certo punto di essere ascoltato, di trovare una interlocuzione nella politica e nei Governi, altrimenti si perde nel nulla, o può assumere caratteri e sbocchi anche molto diversi da quelli che aveva in partenza. E questo ascolto oggi non c’è. Un’ultima battuta sulla politica del passato e se fosse meglio di quella di oggi. Io non ho alcuna esitazioni
a dire che era sicuramente meglio. Negli anni sessanta settanta ottanta e persino novanta la politica e i partiti, pur con tutti i loro limiti, erano meglio. Esistevano prima di tutto, esisteva un confronto e un agire politico collettivo, senza il quale io credo non si possa cambiare nulla della realtà
che abbiamo di fronte e vincere le sfide cosi numerose e difficili che essa ci propone oggi, . -----------------
Curare il mondo curare la politica Intervista a F.Bandoli Marzo Aprile 2022
Curare il mondo Curare la politica Un dialogo con Fulvia Bandoli Conosco Fulvia Bandoli, ravennate, dalla nostra prima gioventù. Dopo gli studi di filosofia a
Firenze, ha avviato il suo impegno politico nella nostra città, Ravenna. Numerose le sue esperienze, di dirigente politica, anche a livello regionale e nazionale, e di parlamentare, dal 1994 al 2008. Ha coniugato la passione per una sinistra da
rinnovare, con ambientalismo e femminismo. Passioni che sono nate e cresciute anche in me, strada facendo. L’idea di una intervista a lei è nata dopo la condivisione dell’incontro “La Cura Maltrattata”. Anche la politica, quasi
sempre maltrattata, ora è ferita in modo tragico dalla guerra in corso. Ecco i pensieri fra di noi scambiati. Paola Patuelli Pima domanda Lo scorso 23 marzo ho partecipato
a un incontro promosso dal Gruppo Femminista del Mercoledì, dedicato al tema “La Cura Maltrattata”. Un incontro pensato prima dell’inizio della aggressione alla Ucraina e che ha visto la partecipazione di donne e uomini
di diversa esperienza. La introduzione è stata affidata a te. Hai sottolineato come la guerra ci imponesse di allargare inevitabilmente il campo della riflessione. Un tuo passo mi ha molto colpito, quando
hai ricordato che nei primi giorni del conflitto hai pensato che inviare armi al popolo ucraino che resisteva fosse necessario. Avevi in mente la storia dei tuoi genitori che, come i miei, sono stati coraggiosamente resistenti quando la storia
ha imposto a loro di esserlo. Poi ha preso il sopravvento, in te, più che la memoria familiare la cultura non violenta che sempre più ha segnato la tua vita adulta. Ci hai ricordato la tua personale esperienza con Nelson Mandela.
Hai citato un passo poco noto di Anna Bravo “Il sangue risparmiato fa storia come il sangue versato”. Vuoi raccontarci di più di questo aspetto della tua vita, non meno importante del tuo femminismo e ambientalismo?
Ho avuto la fortuna di conoscere Nelson Mandela nelle mie varie esperienze in Sud Africa prima come osservatrice dell’Onu durante le prime elezioni libere e dopo, nei primi anni della sua Presidenza. Ritengo il suo un esempio chiarissimo di rapporto
positivo e non "proprietario" con il potere. Quando Mandela diventò 'presidente resta ad abitare nel suo quartiere, è tutt’uno con le sue origini e con il suo popolo, al quale deve la sua scarcerazione. Quando si insediò in
parlamento prima di lui fece entrare gli sciamani ( ricordo gli esponenti politici di tutto il mondo presenti, meravigliati e attoniti ). Lo fece per scacciare gli spiriti maligni e rispettare le sue tradizioni. Governò' i primi tre anni con De
Klerk ( l’uomo che lo aveva tenuto in carcere) ma nell’annunciare il governo di neri e bianchi insieme ( necessario per non accentuare violenze e vendette) non trasfigura la realtà vissuta, anzi la richiama con una forza inusitata "governeremo
insieme perché è necessario al paese ma tra me e lui c’è una differenza di fondo e che resta scritta nei libri di storia. Io sono stato in carcere per 30 anni e lui aveva le chiavi della porta della mia cella”. La sua proposta di Commissione
per la conciliazione nazionale affronta gli abusi razziali e gli omicidi soprattutto dei bianchi verso i neri in decenni di Apartheid tollerato e sostenuto da tanti Paesi complici. Ma qualche violenza vi fu anche da parte di gruppi
di neri. E quando emergono alcune responsabilità della moglie (che aveva fondato un gruppo armato al di fuori del movimento non-violento di liberazione dell’ANC) con dolore, ma con fermezza, ne firma la condanna politica. Se avesse usato il suo
potere nel senso classico del termine avrebbe certamente trovato il modo di salvarla, si trattava pur sempre della moglie del Presidente. Ma se lo avesse fatto avrebbe perso ogni credibilità . Un capo di governo come pochi ve ne sono stati. Da Mandela ho
tratto insegnamenti indelebili che hanno segnato tutta la mia formazione. E che mi stanno aiutando a capire anche questo tragico momento per l'Ucraina e per tutto il mondo. E a ricordarmi che ci sono tanti modi di resistere, e che non
esiste solo la resistenza armata. Seconda domanda L’esempio di Mandela è stato ed è esempio grandissimo. Come la Commissione da lui voluta Riconciliazione nella verità. Senza
la verità dei fatti, da ricostruire, la riconciliazione è impossibile. La stessa verità che i movimenti ambientalisti, di cui tu stessa fai parte, cercano di mettere in luce, a proposito di guerra alla terra che industrialismo e abnorme
consumo di suolo hanno, con colpevole miopia, dichiarato in modo crescente, in particolare a partire dal secolo scorso. Altro che virus che ha dichirato guerra a noi! Anche di questo ci hai parlato il 23 marzo scorso. Puoi riprendere qui le tue considerazioni?
Infatti non ho mai pensato che in questi due anni fossimo in guerra contro un virus e che stessimo in trincea. Quel linguaggio, soprattutto alla luce della vera guerra di questi giorni, era davvero sbagliato. A mio parere si è trattato piuttosto
di un ribellarsi della natura e del vivente non umano, alla nostra secolare incuria. Era già' accaduto negli anni passati che concimi con aggiunta di farine transgeniche dessero luogo a mutazioni nella carne dei bovini (morbo della mucca
pazza), obbligandoci a sospendere consumo di carne per mesi. Stavolta si è trattato di un fatto più' grave, di un'enorme pandemia. Penso vi sia - come molti scienziati e scienziate ci hanno spiegato - una stretta relazione tra come alleviamo
intensivamente gli animali ( e come li macelliamo, li trattiamo e li conserviamo) e il diffondersi di virus sempre sconosciuti e molto insidiosi per la salute umana. Cosi come c'è' un nesso tra la mole di emissioni in atmosfera degli
ultimi 40 anni e il cambio del clima che determina desertificazioni, siccità, carestie e condanna a morire per fame milioni di bambini e obbliga milioni di persone a migrare. Ma oggi dopo la guerra scatenata da Putin tutto quello che avevamo imparato
durante la Pandemia e le priorità che avevamo individuato sono evaporate in 30 giorni: Governi, Parlamenti e Partiti, in Italia e in Europa, han deciso un poderoso riarmo, pur essendo già' molto armati e pur vendendo armi ( noi e la
Ue) a tutte le guerre in corso. E in secondo luogo stanno considerando di riaprire le centrali a carbone mettendo da parte l'urgenza di diminuire le emissioni. Terza domanda E’ quindi evidente che c’è
un forte nesso fra cieca aggressione alla natura, totale trascuratezza per gli allarmi crescenti rivolti dalla cultura scientifica ai governi e ai poteri e la cultura della guerra, che rimuove il valore dei viventi, umani e non solo umani. Da tempo,
in particolare il femminismo, ha elaborato un pensiero fortemente rivolto al tema cura. Cura del mondo, cura e riconoscimento di ogni diversità, cura della politica in ogni suo aspetto. E dire che l’I care, nella sua complessità,
fu posto al centro del suo impegno educativo da Don Milani, già negli anni Sessanta. Un bussola che indicava una precisa strada. Bussola ora perduta? In mano esclusivamente ai movimenti ambientalisti e ai femminismi?
Si, un nesso esiste, e del resto basta guardare a come sono ridotte decine di paesi attraversati negli ultimi 50/60anni da guerre. La guerra si prende tutto, la vita delle persone, desertifica i raccolti e le città, azzera le relazioni umane
e culturali. E non ricordo invasione armata, dopo la seconda guerra mondiale, che abbia risolto conflitti riguardanti confini, etnie o religioni. I danni prodotti da una concezione predatoria e liberista del Pianeta e del territorio sono altrettanto
gravi. I governi del mondo non hanno ascoltato la scienza e la ricerca che chiedevano di rispettare il limite delle risorse naturali, nè hanno prestato attenzione alle cifre enormi della crescente povertà'. Il prezzo che paghiamo per aver scelto
di non fare pace con l'ambiente è altissimo già da molti decenni. Il mio gruppo femminista lavora da anni sul tema della Cura. Molte e molti intendono questo termine solo come " lavoro di cura" fatto dalle donne, altri in questi
due anni l'hanno riferito solo ai vari aspetti sanitari e di sicurezza riferiti al Covid. Noi abbiamo parlato di "cura maltrattata" proprio perché' molto la si nomina ma spesso a sproposito e soprattutto non la si intende come "cura del
vivere" in ogni sua dimensione. Il senso che don Milani dava a questo termine era un "mi faccio carico, mi sta a cuore", che io ho apprezzato moltissimo. Ma nel concetto di cura che un pezzo di femminismo porta avanti c'è qualcosa di più.
C'è anche il conflitto che va aperto e agito con i vari poteri e i vari governi per cambiare davvero lo stato di cose presenti: senza conflitti non cambieremo la realtà' inaccettabile della violenza sulle donne, dello sfruttamento
della natura, o del riarmo e della guerra, o del cambio climatico. Ed è vero che io oggi ripongo le mie non molte speranze nei movimenti femministi ed ecologisti sparsi per il mondo e anche in Italia. Da vari anni non riesco a metterle in
capo a un partito politico o solo alla politica tradizionale, come pure ho fatto per tanti anni in passato. Purtroppo non vedo partiti che si prendano Cura del Vivere e del Mondo. E che si preoccupino davvero delle molte ingiustizie che ancora subiscono
coloro che lo abitano. Quarta domanda Tocchi un punto veramente dolente. La crescita di consapevolezza sui tanti nessi che connettono natura, cultura, storia, che è stata in questi anni evidente nel mondo femminista,
ambientalista e della scienza, sembra non avere toccato, se non molto marginalmente e con paradigmi immutati, la politica, che procede, arcaica, senza uscire da schematismi millenari. E’ ancora alla guerra che si ricorre per risolvere – si fa per
dire risolvere – i conflitti. La viva e tragica recente memoria che madri e padri costituenti avevano della guerra consentì loro di scrivere che la guerra è da ripudiare. Quella generazione è trascorsa e la sua lezione dimenticata.
Persone di animo democratico e sicuramente colte ritengono inevitabile ricorrere alla guerra. I partiti non escono da questo arcaismo. Che cosa è la politica? Si chiedeva Hannah Arendt? La politica è risolvere i conflitti senza violenza.
Migliaia di anni passati invano? Sempre punto e a capo? Qualcosa di nuovo sta nascendo nella nuova generazione, ambientalista e femminista? I partiti politici si guardano l'ombelico da anni e nulla hanno saputo fare per aprirsi a soggetti sociali
nuovi e spesso precari: i riders, i braccianti agricoli, le badanti, e tanti lavoratori della sanità', gli insegnanti, sono questi che hanno consentito la vita a milioni di persone durante i lockdown. E non sono solo precari ma anche super
sfruttati, mal pagati e senza tutele di sicurezza minime. E spesso si organizzano da soli. E anche sul fronte del rinnovamento della cultura politica registriamo un girare a vuoto davvero imbarazzante dei partiti: da decenni l'ambientalismo scientifico
(che non dice No a qualsiasi cosa come banalizzano certuni) composto da associazioni, ricercatori, movimenti territoriali, e dai ragazzi di Fridays for Future fa serie analisi e proposte sul cambiamento dei modelli di consumo e di sviluppo, sui temi energetici,
sui trasporti, sul dissesto idrogeologico, sul ritorno a una agricoltura meno intensiva e più' qualitativa. Tutte queste elaborazioni e proposte non sono mai entrate a far parte stabilmente della cultura politica dei partiti. Ogni tanto qualche
riconoscimento (sempre dopo eventi tragici, un terremoto o un'alluvione o dopo una grande manifestazione dei ragazzi in tutto il mondo), ma l'indomani si torna alla mera gestione del potere nel chiuso dei palazzi. E lo stesso potrei dire rispetto alla elaborazione
e alle proposte di decine di pensatrici e di gruppi femministi che esistono in tutta Italia e nel mondo (sono le femministe russe le più' impegnate oggi contro la guerra, e poi gli scienziati e tanti giovani) e alle molte battaglie fatte dal movimento
delle donne su molte questioni cruciali. I partiti oggi sono impermeabili, incapaci di confrontarsi, avvizziti su se stessi. Concordo con te e soprattutto con Hannah Arendt, la politica è risolvere i conflitti cercando di evitare la violenza. Trattare
senza farsi male. E se qualcuno attacca unilateralmente e scatena una guerra di aggressione il mondo intero, l'Onu e i tutti i Governi e l'Europa, devono agire per farla cessare al più' presto e per far ritirare le truppe di chi ha invaso. Non mi piace
la piega che ha preso da un mese la discussione nel nostro paese. Regalare a Putin i pacifisti, i movimenti non violenti e coloro che condannano apertamente l'invasione dell'Ucraina ma chiedono che si apra una trattativa è un errore gigantesco. Queste
persone non sono nè putinisti nè disertori. E magari, come nel mio caso, condannano Putin almeno da 20 anni, fin dall'aggressione alla Georgia o alla Cecenia, fin dalla persecuzione di giornalisti e opposizioni. Quando tanti altri che
adesso strepitano facevano accordi e affari con lui. Sarebbe meglio abbassare i toni e alzare il livello del confront
La Cura Maltrattata.. appunti su Pandemia e Guerra marzo 2022
23 Marzo 2022, Casa Internazionale delle donne Roma;Incontro Promosso dal Gruppo Femminista del Mercoledì sul tema “ La Cura Maltrattata”
Intervento introduttivo di Fulvia Bandoli Avevamo deciso questo ciclo di incontri prima dello scoppio della Guerra e il primo, " la Cura maltrattata", doveva essere incentrato soprattutto sul dopo pandemia, anche se non è ancora del tutto finita. Ma un mese fa Putin aggredisce e invade l’Ucraina e oggi siamo davanti a una guerra, che mette a dura prova il popolo ucraino prima di tutto ma anche noi e l’Europa, e dunque affronterò entrambi i temi. Porterò alla discussione alcune riflessioni, e mi porrò e porrò a voi alcune domande. Cosa ha messo in evidenza la Pandemia per me ? Certamente l'isolamento
e il rarefarsi delle relazioni, degli scambi e del contatto con i corpi delle altre e degli altri ha messo a nudo la mia fragilita' e il mio pensare e agire si e' fatto piu' asfittico.
Ma ho capito meglio anche altre cose: che non era una guerra contro un virus e che non
stavamo in nessuna trincea, usare quel linguaggio, come alcuni fecero, soprattutto alla luce degli eventi di questi giorni, era davvero improprio. Si trattava piuttosto di un ribellarsi della natura, o del vivente non umano, alla nostra secolare incuria. Ho inoltre scoperto la mancanza clamorosa di una rete territoriale di presidi sanitari per tutte e tutti e la solitudine di affrontare il Covid , da sola, con un telefono e la speranza che qualcuno ti risponda dall'altra parte del filo. Ho toccato con mano l'estensione del lavoro precario che ha retto in gran parte le nostre vite durante i mesi di lockdown e di quanto sia insicuro, sfruttato e sottopagato: i riders, le cassiere, le infermiere, le badanti, i braccianti agricoli. E ho visto anche l'organizzarsi di reti spontanee di volontariato tante volte create da gruppi di donne. E poi il drammatico confinamento dei “molto anziani” in luoghi (le Rsa)che sono quasi sempre pensate e organizzate
in modo da spegnere qualsiasi relazione umana e interpersonale. Tutti aspetti assai bene affrontati nel libro di Letizia Paolozzi e Alberto Leiss “ Il silenzio delle campane”. Ho guardato con allarme
i dati crescenti della violenza verso le donne in famiglia, perche' ancora moltissimi uomini non accettano e non sanno relazionarsi con la libertà femminile, soprattutto se sono costretti a farlo quotidianamente. Certo per
fortuna abbiamo anche vaccinato tanto (dopo il primo tragico anno senza vaccini e con un numero di vittime impressionanti) ma la pandemia ha dominato anni della nostra vita e il vaccino non è stato per tutti i popoli come ha scritto tante volte e assai bene Andrea Capocci nei suoi articoli sul Manifesto. E per le prossime pandemie
o epidemie che dovessero venire la Sanita', i luoghi di vita per gli anziani, le scuole che non hanno sistemi di aerazione, e le fabbriche e i mezzi pubblici andrebbero rivoltati davvero come calzettini. E per farlo servono risorse pubbliche e private enormi. Ma rileggendo il PNRR non si vedono queste scelte, quanto piuttosto tante tratte di Alta velocità,
tante strade, tanta informatizzazione, pochissime rinnovabili, e non abbastanza risorse per il Servizio Sanitario Nazionale pubblico. Perché parliamo di Cura maltrattata? Perché si è abusato tanto del termine Cura ( ma sempre con accezione medico sanitaria: posti letto ,cure mediche ,vaccini, protezioni o in senso
assistenziale, verso alcuni soggetti fragili). E invece proprio la Cura del Vivere, di tutto il Vivere in ogni sua piega e dimensione, come la intendiamo
noi del Gruppo del Mercoledi fin dal nostro primo testo di vari anni fa, è stata appunto maltrattata, o proprio non compresa. La cura del Vivere come io la penso non è tanto o solo lavoro di cura; e' una sorta di chiave interpretativa e di pratica politica per capire e anche per cambiare lo stato di cose presenti,
cura e conflitto dunque sono legati e molti dei terreni che ho richiamato esigono conflitti. C'e' ad esempio, per me ecologista
e per molti scienziate, una relazione evidente tra come alleviamo intensivamente gli animali e il tipo di agricoltura che facciamo e il diffondersi di virus
sempre diversi e pericolosi, cosi come c'e' un nesso tra quante emissioni produciamo nell’aria e il clima che cambia obbligando milioni di
persone a migrare, Ma oggi , dopo la Guerra scatenata da Putin contro l'Ucraina tutto cio' che ci pareva di avere
imparato dalla Pandemia e tutti i cambiamenti che dovevamo fare con urgenza sembrano improvvisamente dimenticati .
I governi, gli Stati, i politici, le politiche economiche e i bilanci e i capi di governo pare riescano ad affrontare solo un tema alla volta. Prima era solo la Pandemia e ora è solo la guerra. L’interdipendenza torna ad essere materia e pratica
sconosciuta. In 20gg abbiamo deciso di riarmarel’Italia e tutta l’Europa, gia' molto
armate e che vendono armi a tutte le guerre in corso. E di riaprire le Centrali a carbone, scordandoci quanto il cambio climatico sia devastante e quante migrazioni produca anch’esso.
La escalation di queste ore da un lato e lo stallo impotente dei colloqui di Pace dall'altro, confermano ciò che noi femministe sappiamo da molti anni: senza relazioni tra le persone, i corpi e gli Stati e senza correlazione
tra i vari temi prevale solo la gestione del potere e la retorica militarista da entrambe le parti. Per
me violenza sulle donne, guerra, pace, disarmo, pandemia sono temi cruciali che erano e resteranno legati per molto tempo. Chiamano in causa alcuni nodi fondamentali del femminismo della
differenza e della lotta al patriarcato e di come viene gestito il potere nelle sue varie forme. Ho avuto
alcun giorni incerti all'inizio del conflitto e ho pensato che quel popolo avesse bisogno davvero di armi per resistere, poi ha preso il sopravvento la
mia cultura non violenta, Aldo Capitini, Etty Hyllesum, Germaine Tillion, Mandela , Pietro Ingrao e Angela Davis. E ho ricominciato a vedere con chiarezza tutte le altre forme possibili di resistenza non armata, quelle delle femministe russe, della giornalista russa che si insubordina e si espone in Tv, delle donne italiane e europee che hanno manifestato l’8 marzo contro la guerra, di quelle che se ne vanno dall'Ucraina non solo per mettere in salvo i figli ma
per salvare anche la loro vita, e ultimamente anche degli uomini ucraini e russi che disertano perche'
si rifiutano di uccidere. Molti sono stati fermati e arrestati proprio nei giorni scorsi. Il linguaggio militarista che domina da giorni tv e giornali italiani è assai pesante con chi si colloca su queste posizioni. La
guerra desertifica le citta' ma scarnifica anche il linguaggio e bandisce la tolleranza reciproca. Se condanni Putin e sostieni l’Ucraina ma vuoi fare di tutto perché si arrivi a una tregua e a una trattativa allora tu , che magari sei tra quelle che lo criticano da venti anni come
autocrate antidemocratico, improvvisamente stai con il diavolo. E invece condannare, resistere in forme non violente e trattare sono cose che stanno insieme perché
come scrive Anna Bravo “ il sangue risparmiato fa storia come il sangue versato”. In questo pessimo clima smarriscono il loro sensooriginario anche le parole. Se dici che Putin e' Hitler, che in
Ucraina c’è un Olocausto o che l’Ucraina e' come Auschwitz, con queste parole " fine del mondo" bruci
tutti i ponti per ogni eventuale dialogo. Leggendo molti giornali italiani e ascoltando varie tv sembra di essere tornati alla “ bella guerra” e ai “poeti
soldati”. E in questa bolla scompare anche il fatto che non solo le dittature ma anche i governi democratici , e anche noi Italiani e Europei insieme a Nato e Stati Uniti,
ci siamo macchiati di guerre e aggressioni orrende che hanno fatto decine e decine di migliaia di vittime civili. Nessuno è innocente.
Dopo la seconda guerra mondiale che liberò il mondo dal nazifascismo e ristabilì la democrazia in molti paesi, con la scoperta dell’atomica, tutto cambiò. Anche il modo di fare le guerre è cambiato,
con quella minaccia sopra la testa. Ho pensato all’Afghanistan il più infelice paese del mondo devastato da 40 anni di guerra, ma anche a molti altri, Iraq, Siria, Libano, Libia, Somalia Georgia,
Cecenia, Yemen. Nessun paese attraversato da una guerra è riuscito a rinascere, nessuna guerra ha risolto conflitti o confini. Non
possiamo far finta che non sia vero.
Noi e il Covid
Noi e il Covid Testo del gruppo femminista del Mercoledì Noi e il Covid-19
È trascorso più di un anno dalla pandemia e dallo smarrimento che ci ha scaraventate fuori dalla normalità. Eppure, siamo al “ritorno
dell’identico”. Stiamo attraversando la terza fase dei contagi, ospedali di nuovo in sofferenza, ingiustizieoltraggiose. Il Covid-19 ha scoperchiato la vulnerabilità dei nostri corpi, trasformato i ritmi della giornata. Le
abitudini sono state sradicate dalla dilatazione del tempo che ha reso difficili le relazioni. Non solo nella cerchia più stretta ma là dove c’era lapossibilità di incontro con gli altri, gli estranei, capace di produrre curiosità e scoperte. Se le relazioni sostengono il desiderio di cambiamento, adesso il desiderio si sfibra e smarrisce la politica praticata dal femminismo. Per paura del contagio ci siamo chiuse dentro. Qualcuna tra noi pensa che cerchiamo una sicurezza impossibile. Qualcuna
si chiede se stiamo accettando di sopravvivere rinunciando a vivere. Da più di un anno siamo braccate dalla presenza della fine, dall’impossibilità di dire addio, dalla
morte nascosta e per questo più atroce. Ascoltiamo, quasi si trattasse di fatalità, la scansione dei numeri di quanti scompaiono quotidianamente. Non di fatalità si tratta. Il Sistema sanitario italiano, nonostante i molti tagli, ci appariva decente? Ora sappiamo che non è così. Ci siamo rese conto che da anni opera un’organizzazione gracile, pronta a polverizzarsi. Con i medici di base che somigliano aologrammi, incapaci di ascoltare i pazienti; di vedere le loro fragilità. Peggio ancora le Residenze per anziani sono state quasi sempre luoghi di deposito e di parcheggio dei corpi. Da quei luoghi tanti, troppi se ne sono andati in silenzio.
Colpiti, perché vecchi, dalla violenza che li considera improduttivie considera inutile la loro esistenza. Così come è violenza aver costretto tante donne a sacrificarsi per tenere insieme i bisogni dei piccoli e dei grandi. Se pure
con un segno diverso, nei suoi nessi tra sesso e potere, è violenza quella maschile
contro il sesso femminile. Rimanda alla convivenza forzata imposta dal Covid-19 e segnala quanti uomininon sopportano il confronto ravvicinato e quotidiano con la libertà delle donne. In questa fase ci hanno sostenuto i/le braccianti, badanti, interinali,commessi e commesse dei supermercati. L’erosione del Pil è stata arginata dalle fabbriche dove solo le lotte hanno strappato “protocolli” di sicurezza. Tuttavia, i lavori sono sempre più comandati dal precariato, segnati dallo sfruttamento.
Hanno scioperato per la prima volta magazzinieri, operai, runnerdi Amazon. Per un giorno i riders sono scesi dalla bicicletta o dal motorino, chiedendo ai clienti di rinunciare a farsi portare il cibo. La presenza del Covid-19 ha cancellato dalla
nostra mente le rivolte contro i regimi e le stragi per reprimerle; le lotte delle donne per le libertà negate; le guerre; i disastri ambientali sempre più incontrollabili. Naufraghi muoiono nel Mediterraneo mentre il presidente del Consiglio italiano va in Libia e ringrazia
la guardia costiera per i migranti “salvati”; naufraghi chiedono soccorso per due giorni nell’indifferenza dell’Europa e della ministra Lamorgese mentre a Ankara il presidente del Consiglio europeo accetta lo sgarbo alla presidente della Commissione europea la quale, a sua volta, tollera l’offesa purché, in cambio di adeguato compenso, Erdogancontinui a “ospitare” più di tre milioni di rifugiati.
Evidentemente, il Covid-19 fa male al mondo e fa male alla democrazia. Si è allargato il divario tra le sedi politiche e la società. Nei partiti l’interrogativo sullo stato dei rapporti tra uomini e donne trova come
risposte il ritorno al passato, alla famiglia tradizionale, al razzismo, al disprezzo degli omosessuali, a una cultura che vuole ristabilire il potere maschile (la difesa
di suo figlio da parte del capo dei 5 Stelle). Oppure un’offerta di inclusione “in quanto donne” come è avvenuto nello
scontro tra le due candidate a capogruppo Pd alla Camera. Possibile che per le donne non ci sia altra strada da quella della miseria simbolica? Se così funziona nelle sedi politiche, la vita sociale è stata sì disseminata di buone azioni (volontariato, solidarietà, scambi tra esperienze grazie al web) però le rovine prodotte dal virus hanno coinvolto chi era
più esposto alla logica speculativa del mercato e gli effetti sono stati di obbedienza, adeguamento, silenzio. Le
donne “portano sulle spalle il peso della pandemia”? Si suppone che siano loro – noi
- in grado di contrastarlamaneggiando la “cura”, da sempre declinata al femminile. “Cura”
è in questa fase parola evocata sino a inflazionarla, in una sorta di appello morale a unirsi contro il
virus. Si può affrontare il Covid-19 senza mettere in discussione l’attuale sistema produttivoeconomico, sociale e ambientale; senza ripensare l’attuale rapporto tra
vita e lavoro, senza contestare lo sbilanciamento dei rapporti tra i sessi, i vincoli tra umani e non umani? C’è una differente
qualità che la “cura” mette nell’esperienza umana grazie alla quale il mondo potrebbe non reggersiunicamente su rapporti di potere, sulla centralità del profitto e sul valore dominante del denaro. Si tratta
di “un resto” prezioso che socializzazione, servizi organizzati, e lavoro retribuito non possono sostituire. Ecco, questo “resto” va
usato nella crisi che è anche crisi del linguaggio, determinata dalla pandemia. Dunque, dobbiamo trovare le parole in grado di nominare la crisi e assieme le azioni umane che l’hanno prodotta. Per
questo, la politica dei vaccini rappresenta ai nostri occhi il primo terreno di cura e il primo oggetto di conflitto giacché poco o nulla si fa per la prevenzione,
per le terapie domiciliari e dalle tante incongruenze si desume che non c’è un cambio di passo: vite potevano essere risparmiate; vite sono andate perdute. La tecno-scienza
ha compiuto un salto incredibile, bruciando i tempi della scoperta, ma se non fa i conti con l’interdipendenza globale dei viventi, rischia
solo di accelerare il “dis-farsi del mondo”. È dettata dalla miopia e dal voler salvaguardare comunque il guadagno di alcune multinazionali, la strenua contrarietà di Usa e Europa a sospendere i brevetti in epoca di pandemia anche seinternazionalizzare i vaccini rappresenta la condizione per sconfiggere il virus: abolire la proprietà privata dei brevetti e assumere l’idea dei vaccini come Bene comune, disponibile per tutti/e.
Cambiare rotta comporta scelte non indolori. Contro una gestione della salute che non
prende le distanze dal passato; contro lo svilimento della vecchiaia; contro la manomissione
del pianeta e dell’ambiente, della terra e dell’aria; contro
gli allevamenti intensivi. La forza trasformativa della libertà femminile ha scommesso sulla presa di parola per trasformar in radice la realtà del presente. In opposizione
agli uomini, ma anche in alleanza con chi quel desiderio sa riconoscere. È questa libertà
che vogliamo agire affinché la cura come desiderio e come conflitto produca una diversa politica. Gruppo delle femministe del mercoledì
Fulvia Bandoli, Maria Luisa Boccia, Elettra Deiana, Letizia Paolozzi, Bianca Pomeranzi, Stefania Vulterini
“Al Lavoro e alla Lotta, le parole del PCI”esce in E book in occasione del centenario.
Pci: Al lavoro e alla lotta di Chiaromonte-Bandoli ora anche in e book Arricchito
da quattro nuove presentazioni firmate da Liliana Rampello, Luigi Covatta, Letizia Paolozzi e Mario Tronti e da alcune parole “dimenticate” nella edizione cartacea del 2017, è ora
disponibile in e book il libro di Franca Chiaromonte e Fulvia Bandoli AL LAVORO E ALLA LOTTA – Storia delle parole del Pci. “Questo libro che Franca
Chiaromonte e Fulvia Bandoli hanno pubblicato anni fa – scrive Liliana Rampello - torna
felicemente oggi a farsi vivo, e gioca miracolosamente con il tempo, parla del passato, lo porta al presente, resta come monito per il futuro. La sua materia sembra inattuale, da anni viviamo in compagnia della falsa opinione che questo sia ormai un tempo
di post-ideologia”. Per Letizia Paolozzi, “Al lavoro e alla lotta provoca in chi è stato comunista la sensazione di un ritorno a casa. Casa simbolica nella quale ti muovevi a occhi chiusi; sapevi evitare gli ostacoli, trovare
l’oggetto d’affezione, scaldarti, rassicurarti, convinto/a di essere dalla parte giusta: degli operai, dei lavoratori, dei contadini e pure della “questione giovanile, femminile, meridionale”…”. “Le parole del Pci: una bella idea – afferma Mario Tronti - quella di resuscitare e riproporre all’attenzione questi ormai classici modi di dire, entrati a volte nell’uso comune del giornalismo politico. La giraffa comunista, secondo la celebre definizione
togliattiana, aveva anche su questo terreno proposto la sua originalità. Ne era venuto fuori al tempo stesso un linguaggio popolare e una lingua intellettuale”. Infine, lo
sguardo “esterno” di Luigi Covatta: “…si trattava di una costruzione molto sofisticata, che probabilmente non sarebbe durata
a lungo se non fosse stata protetta dalla campana di vetro della conventio ad excludendum: la quale inibiva al Pci l’accesso al governo nazionale,
ma al tempo stesso gli offriva l’opportunità di organizzarsi come rappresentanza della società in tutte le sue pieghe…”. L’e book
sarà presentato giovedì 3 giugno alle 17,30 in diretta Facebok sulle pagine della Fondazione Nilde Iotti (www.facebook.com/fondazionenildeiotti), del gruppo 100anni del Pci (www.facebook.com/centoannidelpci) e della casa editrice Harpo (www.facebook.com/harpoeditore). Alla presentazione – assieme alle autrici e a numerosi altri ospiti - interverranno Graziella Falconi, Anna Maria Carloni, Ida Dominijanni e Michele Magno. Il libro è disponibile sulle maggiori piattaforme on
line, da Amazon a Feltrinelli.it, a Ibs, ecc. in formato ePub e Kind
In occasione Centenario Pci articolo per Critica Marxista gennaio 2021
Cento anni dopo IMPORTANZA E LIMITI DELL’AMBIENTALISMO DEL PCI Fulvia Bandoli L’ambientalismo comunista non incrinò mai del tutto la cultura industrialista e sviluppista del Pci. Le diverse questioni ecologiche
e ambientali rimandano alla discussione di metà anni Sessanta sul “nuovo modello di sviluppo”. L’austerità di Berlinguer: diversa distribuzione delle risorse e maggiore giustizia sociale. La svolta maldestra dell’89. Del rapporto tra il Pci e l’ecologia molto si è parlato ma poco si è scritto1. Dovessi dirlo rapidamente la mette- rei così: come Engels non riuscì mai sino in fondo a con- vincere Marx dell’importanza del rapporto
uomo-natu- ra, allo stesso modo ricercatori, intellettuali, filosofi e ambientalisti comunisti non riuscirono mai sino in fon- do a convincere i vari gruppi dirigenti del Pci a innova- re in radice la loro cultura politica e ad abbandonare una visione del
mondo e dello sviluppo centrata sull’in- dustrialismo e sullo sviluppo senza limiti. Qui parlerò dei tentativi, delle battaglie, dei risul- tati ottenuti (quasi sempre spinti da gravi fatti esterni) e dei troppi ritorni indietro. E cercherò
di spiegare per- ché, a mio avviso, se la cultura ecologista – come quel- la femminista – fosse stata compresa e pienamente as- sunta dal Pci, negli anni Settanta, o anche negli anni Ottanta, quasi sicuramente in Italia oggi avremmo an-
cora una sinistra. Uomo, natura e società Il Pci seppe certamente vedere negli anni del dopo- guerra e del boom economico il grande problema del di- 1 Un contributo ancora utile resta il libro di S. Gentili, Ecologia e Sinistra un incontro
difficile, Roma, Editori Riuniti, 2002. ritto alla casa, quello della crescente rendita specula- tiva e sviluppò una buona sensibilità sui temi urbani. In quegli anni prendono forma alcuni esemplari piani regolatori come a Bologna e cresce
l’attenzione del gruppo dirigente comunista sul tema delle periferie a Napoli e a Roma. Anni dopo, nel 1979, con Petroselli sindaco, il Comune di Roma realizzerà l’unico piano per le periferie che la città abbia mai avuto. In quegli
anni prende forma anche l’enorme lavoro di una vita di Gio- vanni Berlinguer sui temi della Sanità pubblica che lo porterà a lavorare alla creazione nel 1979 del Servizio sanitario nazionale e sulla cruciale questione della sa- lute nelle
fabbriche con Giulio Maccacaro e Medicina democratica. Il Pci commissiona un’indagine sulle con- dizioni di lavoro e di salute nelle fabbriche. Vengono raccolti questionari e testimonianze di operai di 225 imprese. I risultati vengono presentati in convegni
po- litici e concorrono a portare il tema della salute dei la- voratori in cima all’agenda politica e sindacale di que- gli anni2. La sensibilità del Pci è dunque molto alta sui temi sociali e sulla condizione operaia ma sfugge ancora
del tutto il nesso tra rendita fondiaria, speculazione edi- lizia e salvaguardia del territorio dal dissesto e la ne- 2 G. Berlinguer, La salute nelle fabbriche, Roma, Editori Riuniti, 1969. Fulvia Bandoli 124 cessità di non consumare
troppi terreni agricoli. O an- cora il nesso tra aumento delle emissioni, inquina- mento crescente nelle città e salute di tutti i cittadini. Nel 1971 l’Istituto Gramsci organizza a Frattoc- chie un convegno sul tema Uomo Natura Società
aper- to da Giovanni Berlinguer e Giuseppe Prestipino. Sembra l’inizio di una fase nuova ma l’insieme del partito resta piuttosto freddo di fronte ai temi discus- si. Nel 1972 escono anche le Tesi del Club di Roma sui Limiti dello sviluppo, a cura
di un gruppo di econo- misti e scienziati diretti da Aurelio Peccei. Ma le pa- role “limiti dello sviluppo” facevano a pugni con la cul- tura politica prevalente nel Pci in quegli anni. Nel frattempo però molti ecologisti – ben prima
che si for- masse il partito Verde (che verrà fondato solo nell’87) – si iscrivono al Pci o alla Sinistra Indipendente che aveva liste collegate. Laura Conti, Giorgio Nebbia, Antonio Cederna, Massimo Serafini, Carla Ravaioli, Valerio Calzolaio,
Milvia Boselli, Enzo Tiezzi e molti altri, vengono eletti in Parlamento o chiamati nelle giunte locali di sinistra. Dentro il Pci in quegli anni c’è anche un nutrito gruppo di urbanisti molto attenti ai temi ambientali e paesaggistici: Vezio
De Lucia, Eddy Salzano, Giusep- pe Campos Venuti, Pier Luigi Cervellati, Federico Oli- va, Felicia Bottino, Alessandro Dal Piaz, e in rapporto con loro, pur se non iscritti, vi sono alcuni trasportisti all’avanguardia sui temi del trasporto su ferro
come il prof. Semprini e Maria Rosa Vittadini. Alcuni di loro entreranno nel Comitato scientifico della Legambien- te, nata nel 1980 nell’ambito dell’Arci e che 8 anni più tardi diventerà una associazione autonoma. Dunque non
mancavano le competenze e le sensi- bilità ecologiste dentro il Pci, anche molto riconosciu- te, ma contavano poco. Il gruppo dirigente nazionale a volte sembra aver capito e accoglie posizioni innovati- ve ma troppo spesso torna alla cultura politica
origi- naria e non si apre abbastanza a nuovi contributi. E su alcune vicende emblematiche lo si vide assai chiara- mente. Restava un non detto, ma a volte anche un det- to esplicito da parte di qualcuno, ed era il convinci- mento che l’ecologia,
nata nei primi movimenti statu- nitensi contro l’inquinamento, fosse una sorta di “moda piccolo-borghese”. Interessarsi degli alberi, dell’acqua, dell’aria, dell’energia, dei trasporti su ferro, secondo molti non aveva nulla
a che vedere con la classe ope- raia, il lavoro e la giustizia sociale. E invece così non era e furono alcuni fatti nudi e crudi, proprio negli anni Settanta e Ottanta, ad incaricarsi di smentirlo. Fatti nudi e crudi: Seveso È il 10
luglio del 1976. Brianza. Zona di mobilifici fa- mosi ma nell’area c’è anche un’industria chimica sviz- zera, l’Icmesa. Il reattore A101 rileva un guasto, gli ope- rai tentano di arginare il danno ma non ci riescono, uno dei
più potenti e tossici componenti chimici, la diossi- na, fuoriesce nell’aria. L’impatto è micidiale. Muoiono 80mila capi di bestiame, le abitazioni in zona A vengo- no abbattute e altre abbandonate. Sono gravi anche i danni alla salute
dei cittadini. Vengono evacuate 700 persone. Alle donne in attesa di un figlio, viene conces- so, se temono malformazioni ai nascituri, di ricorrere alla interruzione di gravidanza: da quella vicenda par- te una discussione difficile sull’aborto terapeutico
e in generale sulla possibilità che sia una libera scelta del- la donna. Dopo due anni, nel 1978, l’Italia si doterà di una legge in materia. Qualche anno dopo inizia il processo di decontami- nazione, tutto il terreno inquinato viene
scrostato e rin- chiuso in enormi vasche di contenimento sigillate e sot- terrate. Una delle persone che starà accanto alle don- ne e alla popolazione di Seveso è Laura Conti, medica, comunista, partigiana, ecologista e in quel momento an- che
Consigliera regionale in Lombardia. Sulla sua espe- rienza a Seveso scriverà due libri3. In uno di essi e negli articoli di quei mesi elabora una metodologia di analisi e valutazione che sarà alla base della Direttiva europea Seveso sulla
prevenzio- ne dei grandi rischi industriali e sul principio di pre- cauzione. 3 L. Conti, Visto da Seveso, Milano, Feltrinelli, 1977; Ead., Una lepre con la faccia di bambina, Roma, Editori Riuniti, 1978. Cento anni dopo 125 Per gli
ambientalisti comunisti e anche per tutti gli altri Laura Conti diventa una maestra, considerata e seguita. Stimata anche nel suo partito, nel quale però non riesce a pesare come avrebbe voluto sulle scelte de- cisive. Un destino comune che parecchi,
negli anni, con- divisero con lei. Mare di schiuma Capitò alcune volte anche alla fine degli anni Settan- ta, poi nel 1984 comincia la prima grande fioritura al- gale in Adriatico e anche nel Tirreno, e infine negli anni 1987-89 la mucillagine
diventa invasiva e per varie set- timane gli abitanti della riviera adriatica si svegliano, guardano il mare e al posto dell’acqua vedono solo una distesa sterminata di schiuma marroncina densa e ma- leodorante. Sono alghe ma non le solite alghe, oppure,
azzarda qualche studioso, è una sostanza che viene emessa dalle alghe, forse è anche tossica. Sicuramen- te toglie ossigeno ai pesci, che escono dal mare e ven- gono a morire sulla spiaggia. Non avevamo mai visto nulla di simile. L’ecosistema
mare completamente in tilt. Il fenomeno dell’eutrofizzazione (eccesso di nu- trienti-nitrati e fosfati) era iniziato vari anni prima, pur con minore intensità, sia nell’Adriatico sia nel Tir- reno e spesso le acque si tingevano di rosso
o marrone. Era il fiume Po che portava, attraverso gli scarichi non depurati, una insostenibile massa di fosforo derivante soprattutto dalla composizione dei detersivi e dagli al- levamenti intensivi di suini. Ma era anche la chimica: ogni giorno infatti scaricavano
i loro fanghi, in quei due mari, gli stabilimenti della Montedison di Porto Mar- ghera e di Scarlino. Crollò il turismo per vari anni. Nacque il movimento per la salvezza dell’Adriatico, si mossero sindaci, partiti politici e in primo luogo
il Pci ravennate e romagnolo, e non solo le associazioni am- bientaliste; furono in quegli anni i primi “scioperi am- bientali”, promossi dall’assessore provinciale all’am- biente di Ravenna Ivo Ricci Maccarini, che istituirà
an- che il Cervia Ambiente. Ed è Massimo Serafini, prima Pdup e poi Pci, parlamentare ravennate, ad animare quella battaglia per anni e a trasferirla anche in Par- lamento. I risultati dopo molte lotte e tanti studi furono una Legge nazionale che
riduceva il fosforo nei detersivi, la Regione Emilia Romagna, che seguita da alcune al- tre, si dotò di un diffuso sistema di depurazione per scarichi civili e allevamenti agricoli e che equipaggiò, con apparecchiature, tecnici e scienziati,
la Daphne, una nave che controllò da quel momento la qualità del mare. La chimica invece non fu toccata, e gli scarichi abusivi in mare continuarono ancora, nel silenzio di partiti e sindacati. Solo gli ambientalisti, anche quel- li comunisti,
e Greenpeace, ogni tanto di notte anda- vano a inseguire le bettoline della Montedison che continuavano a scaricare i fanghi tossici al largo della Laguna. Lavoro e/o ambiente? Farmoplant e Acna (Azienda coloranti nazionali e af- fini): queste due
fabbriche e le loro vicende snodatesi per quasi quindici anni hanno forse incarnato la som- ma delle contraddizioni più significative dentro i sin- dacati, nel Pci, nelle istituzioni locali, nei governi na- zionali, e anche tra i lavoratori: salvare
il lavoro o l’am- biente? O riconvertire le produzioni per salvare sia l’ambiente che il lavoro? O chiudere uno stabilimento se i danni che produce sono enormi e irrecuperabili? Gli incidenti alla Farmoplant furono tantissimi (il più grave
nell’87) e fu aperta e chiusa varie volte fino alla dismissione definitiva. Ma la cosa più significativa fu la scelta degli operai durante il referendum che dove- va decidere se chiudere o ristrutturare: contrariamen- te a quella che era l’opinione
dei sindacati e anche del Pci (ristrutturare) gli operai scelsero, coraggiosamen- te, la chiusura. Lo stesso si può dire per l’Acna di Cengio, una fab- brica di vernici che per decenni inquinò falde e fiumi della Val Bormida tingendoli
di rosso, e dalla quale si sprigionò nell’88 una nube tossica che provocò danni alla salute e seri problemi respiratori alla popolazione di tutta l’area. I sindaci e gli amministratori organiz- zarono proteste, e manifestazioni, e
anche in quel caso il sindacato stette con l’azienda (per salvare il lavoro). Il Pci, più travagliato, si divise in due: chi voleva sal- Fulvia Bandoli 126 vare il lavoro, chi l’ambiente. Non riusciva proprio a farsi strada
stabilmente l’idea che senza garantire la salute dei lavoratori e un ambiente sano, alla lunga non ci sarebbe stato neppure il lavoro. Ma certo non fu facile convincere i lavoratori Acna che il loro posto di lavoro andava chiuso. Brandelli d’Italia Brandelli d’Italia è il titolo di un famoso libro di Anto- nio Cederna, del 1991, che ha come sottotitolo Come di- struggere il bel paese. I centri storici erano già stati svuotati, la speculazione non era stata fermata, le co- ste cementificate
in molte regioni, l’abusivismo soprat- tutto al Sud dilagava, e il dissesto idrogeologico si pre- sentava come una delle piaghe stabili per il nostro pae- se. Ci vorrebbe un articolo ad hoc per scrivere il lungo elenco di frane e alluvioni, basti un
dato macro: dai pri- mi del Novecento al 2014 si sono verificate 1.319 frane, con 7424 tra morti e feriti, e 970 alluvioni con 4521 tra morti e feriti. Dal 1950 al 1990 invece ricordiamo solo le princi- pali: Polesine, Reggio Calabria, Salerno, Ancona,
Vajont, Firenze, Triveneto, Piemonte tante volte, Ge- nova e Liguria tantissime volte, Val di Stava in Tren- tino, Valtellina, Campi Bisenzio, Poggio a Caiano. Così come sarebbe un triste rosario l’elenco di tutti i terremoti gravi e gravissimi.
Dissesto idrogeologico e messa in sicurezza del territorio da tutti i rischi: que- sta è stata una delle battaglie più serie e continuative che gli ambientalisti comunisti hanno ingaggiato den- tro e fuori dal loro partito e in Parlamento. La
più gran- de e urgente opera pubblica che serviva e che serve an- cora all’Italia. Dopo ogni disgrazia si strappavano im- pegni a intervenire, e qualcosa veniva fatto: la Legge 183 del 1989 che istituiva le autorità di bacino e i Pia- ni
di bacino idrografico. Un metodo innovativo di pia- nificare sul territorio partendo dalle sue peculiarità, coordinando il lavoro anche tra Regioni diverse ma ap- partenenti allo stesso bacino. Alcune misure contro l’a- busivismo, la Legge che
istituì i Parchi nazionali nel 1991. Ma passate le tragedie tornavano le brutte abi- tudini: Dc e destre condonavano, e a volte qualcuno che difendeva l’abusivismo cosiddetto “di necessità” lo si trovava anche tra gli amministratori
locali del Pci. Purtroppo la Legge183 non venne quasi mai ap- plicata e oggi possiamo dire che è stata completamen- te svuotata. Sembra incredibile ma per convincere la Direzione nazionale del Pci a riunirsi per discutere e approvare impegni precisi
contro il dissesto idrogeo- logico gli ambientalisti comunisti ci misero moltissimi anni. La risposta era che si trattava di un tema non politico e troppo settoriale. Ma cosa c’era di più politi- co e meno settoriale del fatto che intere parti
d’Italia ogni anno crollavano e si allagavano e con esse case, scuole, porti, fabbriche e ospedali? Ripagare i danni a posteriori inoltre era un suicidio economico. Sarebbe costato assai meno prevenire. E questo, un partito che puntava molto sulla critica
al malgoverno della Dc, avrebbe dovuto capirlo più in fretta! Alta Velocità Nel 1890 il grosso della nostra rete era già ultimato. Una sfida pazzesca, per un paese pieno di montagne [...] fede- rare le nostre diversità.
Nel 1940 si raggiunse l’apice: 42 mila km di rete, 330 milioni di passeggeri, 190 mln di ton- nellate di merci trasportate. Il fischio del treno raggiun- geva ogni sperduto paese. Poi vennero il boom economico, la gomma e la dismissione delle linee [...]
oggi la carta fer- roviaria disegna un corpo scarnificato, senza capillari, ri- dotto alle sole arterie. E gli orari? Quelli di ieri erano en- ciclopedie, ora sono opuscoli4. Il Pci nel primo dopoguerra e fino al 1960 è a favore del- la ferrovia,
essenziale per collegare anche i posti più pic- coli. Poi scoppia il boom economico: la Fiat, l’utilitaria, la Pirelli e la gomma e per i trasporti in Italia comincia un’altra storia. Molte reti ferroviarie minori dal 1960 al 1990 vengono
tagliate (i cosiddetti rami secchi) e la rete si ridurrà in quegli anni della metà, a tutt’oggi la rete si estende per poco più di 17.000 km. 4 Paolo Rumiz, L’Italia in seconda classe, Milano, Feltrinelli, 2009. Cento
anni dopo 127 Il Pci non si oppone a questo cambio troppo drasti- co del sistema trasportistico italiano in favore della gomma e dell’auto. Anche le merci cominciano a viag- giare prevalentemente su gomma. Quando a metà de- gli anni
Ottanta si apre la discussione sull’intero pro- getto di Alta Velocità (la famosa “T” Napoli-Milano e Venezia-Torino-Lione) il Pci è subito d’accordo e anche la Cgil. Il mondo ambientalista invece, anche gli am- bientalisti
comunisti, hanno un’opinione diversa: pro- pongono un raddoppio, nella stessa sede, di tutte le li- nee esistenti per dedicarne una più veloce solo ai pas- seggeri e una solo alle merci, che in questo modo po- trebbero andare più rapide
ed essere competitive con la gomma. Togliendo inquinamento e molti camion dal- le strade. Il progetto costerebbe assai meno e sarebbe realizzabile in tempi molto più brevi. Il dibattito è lun- go e molto conflittuale, ma alla fine gli ambientalisti
perdono questa battaglia. Oggi siamo il paese d’Europa con più merci su gom- ma, e con la necessità, se vogliamo diminuire le emis- sioni climalteranti, di portarne almeno il 30% in più su ferro. Quanto all’Alta velocità,
beato chi abita sulle di- rettrici principali, per tutti gli altri milioni di cittadini il sistema ferroviario o non esiste affatto o si avvale an- cora di mezzi antidiluviani. Il dramma di Chernobyl Lo spiazzamento più clamoroso del Pci lo
registrammo sul tema dell’energia. È questa la vicenda più emble- matica che dà la dimensione esatta del ritardo e della incapacità a prefigurare in tempo un diverso modello di sviluppo e di consumi fondato sulla riconversione
eco- logica dell’economia, sul cambiamento del lavoro/dei la- vori e del ciclo delle merci e su una più equa distribu- zione della ricchezza (su questo tema resta insuperato maestro un altro ambientalista, Giorgio Nebbia, eletto anch’esso
dal Pci seppur come indipendente). Quando comincia la crisi petrolifera e si fa strada la scelta nuclearista in Italia il Pci, pur chiedendo qual- che correzione al faraonico Piano energetico nazionale del ’76, è comunque a favore della scelta
nucleare. Gli ambientalisti comunisti, la Fgci, alcune donne dirigen- ti nazionali, l’Arci e i compagni dentro la Legambiente, invece lo avversano. Nonostante le molte contrarietà nel 1981, il Pci e la Cgil sostengono il Piano energetico
nazionale, che prevede la costruzione di nuove centrali in Italia. Poco importa che in ogni territorio nel quale è prevista la costruzione di una Centrale (Trino Vercel- lese, Caorso, Montalto di Castro) si sviluppino vasti mo- vimenti che spesso vedono
i giovani comunisti e gli am- bientalisti del Pci in prima fila accanto alle associazio- ni ambientaliste. La linea ufficiale resta quella e non cambia. Fino a Chernobyl. È il 26 aprile 1986, durante un test defini- to “di sicurezza”
il personale si rende responsabile di manovre azzardate e della violazione di diverse norme di sicurezza, causando un repentino aumento della po- tenza del nocciolo del reattore. Errori banali, frutto di scarsa consapevolezza e conoscenza, provocano il più
grande disastro nucleare del mondo. La fuoriuscita di vapore contaminato cessa il successivo 10 maggio, ma il reattore della centrale viene definitivamente tomba- to nel “sarcofago” solo tre anni dopo grazie al lavoro di migliaia di uomini che
si sottoporranno a dosi di ra- diazioni altissime e che ne moriranno. La storia li ri- corderà come “i liquidatori”. Gli isotopi della morte av- velenano un territorio di 150 mila chilometri quadrati sul quale vivono 17 milioni di abitanti.
All’epoca tra loro due milioni e mezzo hanno meno di sette anni. Le prime reazioni delle fonti ufficiali minimizzano l’impatto della nube radioattiva sul territorio italiano. Ma durante una conferenza stampa ai primi di maggio la rivista La
Nuova Ecologia e Legambiente comunica- no dati che documentano la presenza preoccupante di radionuclidi su molte aree del Paese. Nei giorni suc- cessivi le autorità vietano il consumo degli alimenti più a rischio come latte e insalata. Il 10
maggio a Roma si svolge una manifestazione con più di 200.000 persone, per la prima volta anche le femministe italiane parte- cipano, pur in uno spezzone formato solo da donne. Il 20 maggio sull’Unità esce un appello femmini- sta rivolto
alle donne dei partiti, nel quale si convoca una nuova manifestazione per il 24 maggio. Livia Tur- co (responsabile nazionale delle donne del Pci) parte- cipa aprendo un canale di comunicazione con il fem- minismo che darà i suoi frutti per vari anni.
Le don- Fulvia Bandoli 128 ne comuniste e gli ambientalisti del Pci capiscono per primi Chernobyl e tutte le sue implicazioni e con le loro analisi intervengono, senza integralismi, in quel difficile crocevia, come dimostrano il convegno e il
li- bro su Scienza potere coscienza del limite pubblicato dalla sezione femminile del Pci nel luglio dello stesso anno e i molti convegni promossi dagli ambientalisti comunisti. Il Pci, attonito e sotto botta, non riesce a dir nulla. Aveva appena concluso
dieci giorni prima dell’inciden- te il suo XVII Congresso nazionale a Firenze boccian- do, per un pugno di voti, gli emendamenti Bassolino e Mussi sostenuti dagli ambientalisti del partito che chie- devano di mettere in discussione il nucleare: 440 voti
a favore, 457 contrari e 59 astenuti. L’anno successivo, nel 1987, si tiene il referendum e prevale la posizione che prevede l’abbandono della pro- duzione nucleare in Italia. Anche il Pci vota per la chiu- sura. Ma non è per profonda
convinzione (l’ala più “in- dustrialista” continuerà a sostenere il nucleare), quan- to piuttosto perché dopo Chernobyl il gruppo dirigente nazionale non poteva fare altro. Quale modello di sviluppo A ben guardare
tutte le vicende che ho illustrato fin qui, il tema è sempre lo stesso del 1966. La prima discus- sione su quale modello di sviluppo il Pci dovesse perse- guire infatti avviene all’XI Congresso. Togliatti era morto a Yalta due anni prima. Erano
iniziati gli anni del centro-sinistra e il Psi di Nenni era al governo con la Dc. L’unità delle sinistre si dibatteva in una grave crisi. Si cominciava a parlare di consumismo e di neo- capitalismo. In quel congresso si discute se la sfida dei
governi di centro-sinistra debba essere accettata, a co- minciare dalla “programmazione economica” allora al- l’ordine del giorno (Amendola pensava di sì), o se si deb- ba invece costruire un’alternativa radicale, un “nuovo
modello di sviluppo” (questo sosteneva Ingrao). Ebbe a scrivere Alfredo Reichlin: Ingrao vedeva il tema delle grandi trasformazioni del ca- pitalismo italiano, che non era più arretrato o straccione, come sosteneva Amendola, ma bisognoso
d’essere guida- to e governato lungo l’asse di un inedito sviluppo, a parti- re dai punti alti già raggiunti in quell’Italia in movimen- to, e che fosse in linea con la modernizzazione necessaria del sistema-paese. Ingrao lo fece proponendo
di cambiare il tipo di sviluppo economico, superando i bassi salari, al- largando il mercato e il ventaglio dei bisogni, fuori dai ri- voli corporativi della protesta, e imprimendo un segno de- mocratico al meccanismo dell’accumulazione. In quella di-
scussione era Ingrao il riformista e non Amendola, fermo invece all’arretratezza5. Sul modello di sviluppo i comunisti italiani hanno con- tinuato a discutere sempre, mettendo al centro, di vol- ta in volta: il ruolo dello Stato e del pubblico in
econo- mia (la discussione sul keynesismo), la contrarietà alla Cassa per il Mezzogiorno, soppressa solo nel 1984 per- ché strumento di un intervento assistenziale verso il Sud, la necessità di una politica dei salari, misure effi- caci
sulla evasione fiscale, la scelta europea nei primi anni Ottanta. Ma solo Enrico Berlinguer, nel gennaio del 1977, prova ad accendere una luce su temi assai vicini a quel- li della nascente cultura ecologista. L’ambientalista tra i due Berlinguer
era Giovanni, ma credo che le idee e le battaglie del fratello abbiano avuto un peso anche su Enrico. Nel famoso discorso dell’Eliseo Berlinguer non nomina mai la parola ecologia, ma l’impianto è molto innovativo: attorno ai concetti di
spreco e di sfrenato consumismo Berlinguer sembra voler aprire una ri- flessione su un’altra idea di sviluppo. Il termine austerità viene declinato attraverso la necessità di superare ogni spreco, di introdurre più qualità
nei consumi, e dunque anche una diversa re- distribuzione delle risorse, e più giustizia sociale. Ma non mancano coloro che danno dell’austerità una let- tura molto diversa, alcuni la interpretano in modo così distorto da stravolgerla,
fino a presentarla come la ri- chiesta di sacrifici ulteriori per la classe operaia. Altri 5 Cit in B. Gravagnuolo, Lo scontro tra Amendola e Ingrao, in l’U- nità, 26 marzo 2005. Cento anni dopo 129 invece la capiscono,
e non l’accettano. Né fuori dal Pci, perché sanno che metterebbe in discussione il modello di sviluppo così come si è definito fino a quel momen- to, né dentro il partito dove è ancora forte l’impianto
industrialista e prevale la parte che pensa lo sviluppo come illimitato e non è d’accordo di metterne in di- scussione alcuni cardini fondamentali. E così la batta- glia degli ecologisti comunisti continua tra alti e bassi fino alla fine
del Pci e per molti di loro anche oltre. Penso che per tante e tanti di noi sia stato un lavo- ro esaltante e che si siano ottenuti alcuni apprezzabili risultati. Ma resta il grande rammarico di non averce- la fatta a trasformare il Pci in un partito
socialista (nel senso originario del termine), ecologista e femminista. La svolta maldestra dell’89 Poi arriva l’89, la caduta del Muro di Berlino, e la svol- ta più dolorosa ma anche più maldestra che si potesse immaginare.
Chi la propose la caricò di tutti i possibi- li sensi di colpa. Invece di festeggiare la caduta del Muro, perché noi comunisti italiani avevamo sempre concepito il socialismo come il contrario di un regime autoritario e senza democrazia, prevalse
lo sconcerto. Potevamo uscire dalle macerie del Muro come un gat- to si salva dal terremoto, e invece restammo sepolti, quasi che sulle nostre spalle gravassero le stesse re- sponsabilità della Germania dell’Est o del Pcus e del- l’Unione
Sovietica. La peculiarità del comunismo italiano e la sua via de- mocratica al socialismo furono azzerate. Scomparve, da un giorno all’altro, quel Pci che Gramsci aveva voluto ra- dicalmente diverso dai partiti comunisti dell’Est e
che Togliatti definì “una giraffa”, a significare quanto fosse unico rispetto a ogni altro partito comunista esistente. Non ho mai negato che una svolta fosse necessaria. Il fatto è che svoltammo senza alcuna fierezza di ciò
che eravamo stati e arrivammo, frastornati e incerti, in una terra di nessuno. Perdemmo in quel passaggio quasi tutti i nostri migliori “bagagli”: le radici sociali che ar- rivavano ancora in tutta l’Italia, la buona capacità
di analisi della realtà, le strutture territoriali e nei luoghi di lavoro, il volontariato di tante migliaia di iscritti, e soprattutto i due tentativi più innovativi, avvenuti en- trambi negli anni Ottanta: l’incontro con l’ecologia
e quello con il femminismo. Per uscire dalle macerie in- fatti non serviva tanto o solo cambiar nome, come si il- lusero coloro che lo proposero. Il Pci, indipendente- mente dal crollo dell’Est, segnava il passo già da diver- si anni, faticava
a innovare la sua cultura politica, tar- dava a capire le trasformazioni profonde, le nuove idee sullo sviluppo e i movimenti sociali e anche i cambia- menti in atto nel mondo del lavoro. Dopo la svolta non ripartimmo dalle due più grandi rivoluzioni
pacifiche della seconda metà del Novecento. Anzi, il Pds e i Ds furono ancor meno attenti di quanto non fosse stato il Pci. La battaglia degli ecologisti di si- nistra e delle femministe continuò ugualmente ma rag- giungere risultati significativi
fu difficilissimo. Al momento della svolta avevamo ancora gruppi si- gnificativi di ecologisti e di femministe e buone elabo- razioni e proposte per tentare di diventare un partito eco-socialista e femminista. Ma la maggioranza del gruppo dirigente teorizzò
e scelse sempre più chiara- mente di non avere alcun profilo distinguibile. E così maturò una subalternità evidente ai modelli liberisti dell’epoca. Oggi alcuni dei protagonisti di quella invo- luzione lo ammettono. Ma dirlo
trent’anni dopo ha poco valore. Poi dai primi anni Duemila, anche quel poco che restava della sinistra dopo l’89 si sgretola ulteriormen- te: politicismi esasperati, l’illusione della vocazione maggioritaria, i “nuovi contenitori”,
il partito leggero. Il tutto si conclude, nel 2007, con la nascita del Pd, che unisce malamente e burocraticamente i Ds e la Margherita, che a mio parere dovevano restare partiti distinti perché diversi. E oggi l’Italia è ancora l’unico
paese europeo senza una sinistra politica.
Articolo sui Brevetti pubblicato sul sito del Crs
Togliere i Brevetti, in fretta.
Che si tratta di una pandemia lo sappiamo da un anno, che ha colpito durissimamente tante vite umane portandosele via e tutte le vite di ogni essere umanocambiandole nel profondo ce lo dicono i numeri,impietosi, dell’Europa e del mondo intero. E in questo contesto una riflessione puntuale andrebbe fatta sulla brutta prova di governo fornita in particolare da tutte le democrazie occidentali. Non per mettere
in discussione la democrazia, ma semmai il modello di sviluppo e le politiche economiche, sociali
e sanitarie scelte dai governi occidentali. E non va dimenticato neppure il ritardo con il quale questi paesi hanno compreso l’entità
del fenomeno cui si trovavano di fronte. La Cina è stata sicuramente colpevole di omissioni e di informazioni tardive una volta isolato il virus, ma anche quando le informazioni ci sono giunte, molti paesi occidentali hanno tardato settimane o mesi prima di prendere le prime misure di contenimento. Adesso però, dopo un anno, siamo in una fase diversa: è
vero che il virus èancora molto attivo in tutta Europa , in Africa, Brasile, India e negli Usa, e
che tanti Paesi sono ancora in Lockdown. Ma negli Usa ora c’è un
Governo che ha deciso di affrontare il problema. Esoprattutto da qualche mese sappiamo di avere a disposizione vari tipi di vaccino. Questo dato segna una svolta. Non
insisterò sulle differenze tra un vaccino e l’altro, sul fatto che tutti sono nati grazie a ricerche di laboratori di Aziende farmaceutiche
multinazionali private anche se fortemente finanziati da risorse pubbliche ( salvo quello cubano, ancora in fase di sperimentazione e tutto pubblico, e quelli russo e cinese sui quali
ho meno informazioni sulle case produttrici). Qui voglio trattare un
solo punto : abbiamo vari tipi di vaccini, ma dopo il primo mese di vaccinazioni sono emersi limiti
sostanziali. Il vaccino per tutti, che sarebbe “ la cura di cui ha bisogno il Mondo” per immunizzarsi
in tempi più brevi possibili ,non è disponibile per tutti e ha costi altissimi che i paesi poveri non potranno mai permettersi. Le multinazionali farmaceutiche si sono accaparrate tantissimi
contratti e commesse e non riescono a far fronte alla domanda,neppure a quella dei paesi ricchi. E per questo, in tutta Europa, ogni piano vaccinale nazionale sta
saltando o ritardando di molti mesi. E detto per inciso, se non riusciremo a vaccinare entro il prossimo inverno il 60/70% della popolazione europea, non ci sarà Recovery Plan che tenga: le cifre della crisi economica
crescente lo travolgeranno. Mentre i paesi poveri non potranno mai arrivare
al vaccino.
Abbiamo vissuto una situazione analoga, pur con tutte le differenze del caso, quando l’Hiv imperversava in tanti Paesi del Mondo ma soprattutto in Africa, focolaio principale, e la cura aveva costi proibitivi per tutti i paesi poveri. Dopo lunghi mesi di lotte , manifestazioni
, dopo la sollevazione popolare in tanti paesi e la solidarietà estesa di mezzo mondo, Nelson Mandela, Presidente del Sudafrica, e
altri leader di paesi africani riuscirono a strappare all’Onu, all’OMS e al Wto l’impegno di togliere i brevetti, cosi che i farmaci potessero essere prodotti anche in Africa diventando quantitativamente sufficienti ed economicamente accessibili a tutti i paesi poveri. Fu una svolta. Che riportò sotto controllo una malattia che già aveva
mietuto un numero enorme di vittime. Una svolta analoga va fatta oggi se vogliamo che il vaccino sia per tutti e non in base al Prodotto Interno Lordo. Durante una guerra, o in condizioni particolarissime, i brevetti su medicinali salvavita possono essere superati, e i Governi possono avere voce in capitolo. Una pandemia non è una guerra, ma è, incontestabilmente, un flagello che sconvolge un pianeta intero. Dunque da questo assunto bisogna prendere le mosse. I risultati della ricerca scientifica, delle sperimentazioni e dunque anche i vaccini, tutti i vaccini che avranno l’approvazione sono un bene comune e vanno messi in comune.
Non esiste il mio vaccino e il tuo vaccino. Esistono i vaccini e sono l’unico rimedio per curare il mondo in questo momento. Angela Merkel, che non a caso oltre che una leader di Governo è anche una scienziata, ha opportunamente
sottolineato giorni fa che , nonostante le forti divergenze dalla Russia e dalla Cina sui diritti civili, la democrazia e le divergenze
in politica estera, lei è pronta , se i vaccini russo e cinese saranno approvati
da Ema, a collaborare e a fare accordi per produzioni comuni. Un approccio che condivido; quando è in pericolo la sopravvivenza
umana, i risultati della scienza e la cura del mondo vanno condivisi. Ma un passo deciso l’Europa non l’ha ancora fatto, si discutono eventuali
ricorsi e revisione dei contratti con le Aziende produttrici. Strade impervie che
hanno tempi biblici e mille cavilli da scavalcare. Se poi hai fatto contratti discutibili e ti sei impiccato con le tue mani a penali inesistenti ,e poco cogenti, allora davvero è inutile incamminarsi per queste vie. Oramai è accertato che Pfizer ha accettato più ordini di quanti poteva evaderne, e anche con gli stabilimenti ristrutturati non
siamo certi riesca a mantenere tutti gli impegni presi. A questo si aggiunge il ritardo di molti mesi di Astrazeneca ( un vaccino non ancora approvato e
che pare avere qualche problema di efficacia da risolvere) e la scelta di Moderna di produrre soprattutto per gli Usa che contano di farne un milione al giorno. E ancora molto indietro stanno Sanofi e Johnson and Johnson. Che fare allora? L’Unione Europea, il WTO e l’OMS
(come chiede la Petizione promossa da mesi dal Governo Sudafricano
,Indiano e da Medici senza Frontiere) devono mettere subito
in comune tutti i vaccini approvati e quelli in via di approvazione (compresi quelli cinesi russo cubano) e
deliberare in fretta il superamento dei Brevetti. Il mondo intero non può restare appeso alle ristrutturazioni di una o due multinazionale, alle loro oscillazioni sul prezzo, alle incertezze e ai rallentamenti cui ogni
produzione può incorrere. Se vogliamo tornare a vedere uno spiraglio di luce entro il 2021 servono al nostro Pianeta miliardi di vaccini e per averli bisogna da subito mettere
in comune le ricerche, le conoscenze esoprattutto i processi produttivi. Togliendo i brevetti i vaccini
potranno essere prodotti in tante aree del mondo e arrivare dovunque , in ogni paese , come giustiziasociale e democrazia esigono.
Andare e tornare: dall'Io al Noi e dal Noi all'Io
Andare e tornare: dall’io al noi e dal noi all’io 1. Nel mondo c’è rabbia e rivolta. Guardare agli avvenimenti che si succedono è per noi da tempo motivo di inquietudine, ma soprattutto ci interroga sull’urgenza di un bagno di realtà, per poi nominarla e trasformarla. Non vogliamo restare fedeli, fosse pure al femminismo, senza la capacità di agire in conseguenza dei cambiamenti del mondo.
2. Sugli avvenimenti: come leggiamo quello che accade dal Cile alla Bolivia, a Hong
Kong, dal Libano all’Algeria, dall’Iraq all’Iran? Come valutiamo il grande protagonismo delle donne che,
soprattutto in America Latina gridano “El violador eres tu” e per questo, per la loro ribellione, fronteggiano repressione e prigionia? Certo, non si può tracciare un parallelismo tra vicende diverse. Tuttavia, cogliamo dei nessi, scopriamo un terreno comune pur in contesti differenti, tra contestazione
dei governi, rivendicazioni economiche e indignazione contro la violenza delle ingiustizie. Ovunque sembrano in gioco non solo gli eccessi di un’economia e di una politica di sfruttamento, ma la ricerca di un radicale mutamento politicoche comprenda l’agire collettivo e le singole vite. Non più chi domina e chi sopravvive. Non più
vite di scarto. Non più scarti nei mari e nelle città. Singolarità che si uniscono in cerca di un “noi” contro chiusure, violenze verso le donne, verso i migranti, verso l’ambiente.
3 D’altronde, c’è un forte legame – benché poco visibile - tra immigrazione e clima. Il negazionismo
climatico e la devastazione ambientale trovano la loro giustificazione, in nome del profitto, nell’atteggiamento padronal-patriarcale dei sovranismi, come è avvenuto in Australia dove un governo di destra ha sottovalutato i danni della siccità
e lasciato distruggere il paese. Ma anche la limitata determinazione dei governi europei fa danno come ha dimostrato il fallimento dell’ultima Cop25 sulla diminuzione delle
emissioni che alterano il clima, conclusacon un nulla di fatto, sbattendo così la
porta in faccia, dopo tanti elogi, alle ragazze e ai ragazzi di “Fridays for future”. Si inquina in “casa propria”, come fa Bolsonaro, senza nessuna attenzione alle popolazioni indigene. Si estraggono risorse naturali con modalità di lavoro schiaviste da parte delle multinazionali. Si domanda ai governi più poveri
di prendersi i rifiuti tossici dei paesi ricchi per un pugno di soldi mentre si alzano muri e si chiudono i porti ai migranti. Non vogliamo parlare solo di accoglienza, ma dei muri da abbattere per non rimanere
noi imprigionati/e di qua dal muro, e inariditi/e per mancanza d’incontri e scambi. Sappiamo che l’incontro-scontro
con chi ci è straniero è difficile, rischioso, conflittuale. Ma si tratta di una strada obbligata che non può essere respinta nel timore della crescita del razzismo.
4. Quello che sta succedendo non si spiega esclusivamente come conseguenza di una crisi economica e
finanziaria che scuote il mondo da più di un decennio, frammentando i lavori e precarizzando le vite di tante e di tanti. A provocare insicurezza c’è il degrado della vita sociale, la solitudine, l’impossibilità di curarsi se ci si ammala, l’aggressività dei maschi, con i quali
spesso conviviamo. Ma in tutto il mondo i sentimenti di insicurezza e paura sono monopolizzati da politici che li spostano sui migranti. L’abuso, reiterato, di questa
parola mira a togliere umanità e soggettività a donne e uomini, trattandoli/e come numeri (tanti sono arrivati,
tanti sono redistribuiti), privandoli/e della storia e delle storie, riducendo esseri viventi a cose. In Italia non si riconosce cittadinanza neppure
alle ragazze e ai ragazzi nati/enel nostro paese e partecipi di percorsi famigliari di migrazione. 5. Lo “spirito del tempo” si esprime nel tentativo di tornare al passato: alla restaurazione del vecchio ordine “naturale” dove il posto della donna la sua sessualità sono assegnati in partenza, alla famiglia patriarcale, come baluardo maschile contro la libertà delle donne, al nazionalismo, come clava contro i/le migranti, alle identità “naturali” contro le persone sessualmente “non conformi”, quasi che la nostra epoca provasse repulsione di sé. Gli autoritarismi delle
destre in Europa, si coniugano ai sovranismi di Trump, Bolsonaro, Pinera. Anche la Cina dell’imperiale “via della seta” sembra ormai votata all’espansione di un mercato senza diritti. Un’ espansione che è messa a dura prova dall’emergenza del coronavirus. Con un sistema di potere autoritario, che in assenza
di media liberi e di partiti di opposizione, fatica a ricevere informazioni accurate e soprattutto a trasmetterle tempestivamente alla popolazione. 6.Noi viviamo in un paese a rischio. Dove è forte una destra che si serve dell’odio, che ha sdoganato atti e parole violente, gesti
razzisti, aggressioni sessiste, stereotipi offensivi delle donne. Dove si pretende di ristabilire il “diritto” del padre a decidere per
e su tutti/e (nel disegno di legge Pillon, tuttora depositato in Parlamento; o con il ricorso alla Sindrome di alienazione parentale,
per sottrarre alla madre l’affido dei figli, delle figlie). Dove le sinistre e il Governo balbettano sulla questione della giustizia (tra stop alla prescrizione, Disegno di legge sulle intercettazioni, Decreti Sicurezza, situazione delle carceri etc.) e non riescono a dare risposte che rappresentino un’alternativa di fronte all’avanzare di povertà, diseguaglianze e insicurezze, causate dalla globalizzazione liberista. 7. Non
da oggi le donne lottano contro l’offensiva reazionaria. Con la loro politica; con la soggettività che hanno messo in campo e con la critica radicale al patriarcato. Le mobilitazioni sono sempre più imponenti. Ovunque, da #Niunamenos in America Latina, a Czarny protest in Polonia, il mostro è la violenza. Negli Stati uniti, il movimento #METOO ha avuto la straordinaria
capacità di dare valore e autorità alla presa di parola femminile. Mettendo sotto accusa il sistema sesso/potere/denaro, come era già avvenuto in Italia, nei confronti di Berlusconi.
In Italia NUDM contrasta da anni le tante facce che assume la violenza nel rapporto tra capitalismo e patriarcato. E’ una rivolta estesa ed esplicita contro i fondamenti di un sistema di potere sessuato,
prima ancora che sociale, economico, politico. 8. Una analoga resistenza, attiva e diffusa, è espressa dalle ragazze e dai ragazzi dei Fridays for Future, nelle piazze delle Sardine che voglionocambiare il linguaggio della politica, nella lotta contro le discriminazionidelle persone LGBTQI. E, prima ancora, nella tenacia di chi salva i e le migranti in fuga dai lager libici e nella lotta di tante e tanti per il lavoro
e la sicurezza. Un certo numero di uomini guarda con interesse al femminismo. Sempre più uomini si interrogano, si mettono in discussione.
9. Abbiamo nominato soggetti e lotte diverse che hanno in comune il rifiuto dei rapporti di potere e di sfruttamento. Eppure ribellarsi non basta. La destra dà una rappresentazione del mondo,
oggi vincente, avvalendosi di una lingua aggressiva e di un messaggio semplificato che diviene senso comune. Promette rassicurazione e identità,
se ci si affida a un capo dotato di “pieni poteri”. E’ sul terreno dell’egemonia, sul peso dell’autorità, che va sconfitto chi afferma di parlare in nome del popolo. La prima, radicale, azione politica, lo abbiamo appreso nel femminismo, consiste nel cambiare
l’ordinesimbolico. Spostare lo sguardo, dare un altro nome alle cose significa trarre fuori dalla rappresentazione dominante la realtà che ci
interessa modificare: usare la forza della competenza, dell’esperienza acquisita e non la violenza. E’ avvenuto quando abbiamo
messo al centro della politica e del linguaggio la libertà femminile. Significando noi l’essere donna, a partire dai vissuti e dai corpi.
10. Non c’è però conflitto sul simbolico se il femminismo ripiega unicamente in difesa del corpo femminile. Il corpo ha una lunga storia nella politica delle donne, come bene da tutelare, come valore da difendere. Ma questo non significa chiudersi nelle proprie certezze. Ogni posizione troppo schematica rischia di ridurre la complessità dei problemi. Invece conosciamo donne, con le
quali abbiamo condiviso un lungo tratto di strada, che sembrano aver fatto del divieto sulla gestazione per altri esulla prostituzione l’unica e ultima trincea. Si vuole così affermare una “essenza immutabile” del sesso femminile. Anche per noi è forte il timore
che la mercificazione, sempre più pervasiva, dei corpi e delle vite tolga autonomia alle donne nella procreazione e nella sessualità, piegandole ancora e sempre all’uso maschile del loro corpo. In particolare nella GPA, alcune temono che le posizioni dei gay e dei e delle trans favoriscano la rimozione della differenza sessuale riaffermando, in altre forme, il soggetto neutro universale. Ma questi rischi non si evitano con le proibizioni. 11. Non c’è conflitto sul simbolico neanche se il femminismo nel leggere il disagio e lo sfruttamento capitalistico si inchioda all’interpretazione del marxismo mettendo in ombra, nelle lotte e nel linguaggio, i rapporti tra i sessi, la sessualità, la responsabilità della cura.
Il danno più grave è che la volontà di dividere nettamente ragione e torto inibisce il confronto, anche nel conflitto, negando le differenze tra donne e tra femministe.
12. Noi del “Gruppo del mercoledì” pensiamo
che oggi come ieri non si possano ridurre le soggettività delle donne e la complessità dei rapporti, adun unico fronte di conflitto. Non a quello del corpo mercificato, né a quello dello sfruttamento capitalistico. Non
possiamo, e non vogliamo, lasciarci alle spalle quanto di più prezioso abbiamo costruito: partire da séper contrastare (cancellarlo è impossibile) il
negativo presente nella società e nella politica. 13. Nella larga e diversificata
mappa delle lotte si esprime il malessere di tanti e tante, sul quale è possibile costruire un’altra rappresentazione della realtà. Se guardassimo il mondo tutto
intero, con le guerre che molti governi hanno scatenato, con la povertà e il cambio drastico del clima, capiremmo che ogni essere umano, noi comprese, potrebbe diventare un/una migrante. E avere la
necessità vitale di essere accolta/o. Non esiste "casa" che sia al riparo dalle temperie. Non è credibile dire "aiutiamoli a casa loro perché molti e molte non hanno più una casa. Insomma nel presente e nel futuro possiamo solo dividerci, necessariamente in pace, la terra, l’acqua,
il cibo che restano. E mettere in scambio i bisogni dell’anima. 14. Per nominare
e modificare la realtà, bisogna avere coscienza del limite: delle risorse, del progresso ad ogni costo, delle tecnologie e della scienza, dell’affermazione di sé narcisistica e ego-centrata;
di quel paradigma economico per cui ogni anno muoiono due milioni di persone per la subordinazione delle vite alla competitività delle imprese. A noi interessa la pratica del prendersi cura,
come ascolto e come sguardo attento al modo di stare insieme per imparare a riconoscere la ricchezza delle differenze. E perché sarebbe la risposta più efficace in grado di contrastare l’ingiustizia sociale dando valore ai legami di cura.
15. Ci vuole coscienza del limite – che
sia il proprio, l’altrui, quellodell’ambiente in cui viviamo o della cultura in
cui siamo cresciute – non come confine invalicabile, ma come possibilità di attraversamento e contiguità, nominando fragilità e paure, conflitti e responsabilità. Questo significa uscire da se stesse perché si ha curiosità delle altre e degli altri e perché scopriamo di esistere grazie alle altre, agli altri. Dunque, partire
da se stesse ma per tessere relazioni. Spostarsi dall’io
al noi e dal noi all’io perché solo così saremo in grado di capire il cambiamento per orientarlo, per non subirlo passivamente, ma per aprire all’inatteso.
GRUPPO FEMMINISTA DEL MERCOLEDI’ Febbraio 2020 Inviato da iPad
Da dove potrebbe ricominciare la Sinistra
Una visione del mondo che parta dallo stato del Pianeta Può sembrare un approccio troppo vasto, io lo ritengo invece l'unico possibile. Ogni questione internazionale, nazionale, settoriale, di classe, di genere, di generazione dovrebbe partire da questo. Lo stato del Pianeta, a seconda di dove e
di come avverranno alcuni mutamenti strutturali egrandi migrazioni provocate dei cambiamenti climatici, avrà un'influenza pesante sui rapporti di forza economici,
sociali e geopolitici nel mondo.Chi pensa che l’ecologia nulla abbia a che vedere con la lotta per una maggiore giustizia sociale e un
diverso sistema economico compie un errore: il massimo sviluppo del liberismo coincide con la massima concentrazione di ricchezza in pochissime
mani, con lo sfruttamento incontrollato di tutte le risorse, naturali e non, e con il ritorno di forme estese di schiavitù e sfruttamento.
Accedere oppure no all’acqua,all’energia, all’istruzione e alla sanità, avere a disposizione terra da coltivare, industrie
sostenibili che mantengano l’occupazione, poteraccedere al credito in banche che non siano banche d’affari e speculative, avere un lavoro e un salario dignitosi, sono
questi, per usare un termine a me caro, veri e propri elementi di socialismo.
Lo stato del Pianeta ci dice invece da tempo chele emissioni di anidride carbonica sono ancora altissime, il cambio del clima interessa ogni parte della Terra, come l’aumento del livello dei mari, l’estinzione
di molte specie, la deforestazione, l'aumento delle aree desertificate e la scarsità di alcune
risorse vitali come l'acqua. Tutti segni di un cambiamento radicale delle condizioni
di vita per centinaia di milioni di persone. Mutamenti iniziati negli anni 80 ma che pochi presero sul serio. Ora che toccano le nostre singole vite, e incombono sul
futuro di chi verrà dopo di noi, con quarant'anni di ritardo, cominciamo a preoccuparci , ma finora con poche risposte convincenti,
in termini di cambiamento dei modelli di sviluppo.
I Governi degli Stati e le sedi internazionali sono più insensibili e meno propositive di quanto lo siano i giovani, molti movimenti femministi soprattutto in America, India e Africa, molte associazioni ambientaliste, singoli economisti
e alcuni partiti Verdi come in
Germania e Francia. Siamo arrivati in tempi rapidi a quel
che Zygmunt Bauman prefigurava molto lucidamentenel suo libro “Vite di scarto” uscito nel 2005: “la
modernizzazione è la più prolifica e meno controllata “linea di produzione” di rifiuti e di esseri umani di scarto. La sua diffusione globale ha sprigionato e messo in moto quantità enormi e sempre crescenti di persone
private dei loro modi e mezzi di sopravvivenza. I reietti, i rifugiati, gli sfollati ,i richiedenti asilo sono i rifiuti della globalizzazione. Ma non sono i soli rifiuti: vi sono anche le scorie che hanno accompagnato fin dall’inizio la produzione.” E infatti, se ci pensiamo, da quanti anni oramai
i Governi del mondo e le sedi sovranazionali si interrogano su“dove mettere i migranti” e in vari casi anche i rifiuti? Le vite di scarto e gli scarti del nostro modo di produrre e consumare sono un grande paradigma e insieme la cartina di tornasole di quanto il modello di sviluppo liberista sia arrivato al capolinea. E non è un caso che
i due fenomeni viaggino appaiati, con incroci inquietanti. Mentre alziamo muri
e chiudiamo i porti ai
migranti, domandiamo ai governi africani e del sud est asiatico, per un pugno di soldi, di prendersi i nostri rifiuti tossici, nocivi e urbani. E’ di questi giorni il rifiuto
di molti paesi asiatici di farsi ancora carico della mole enorme di plastica e rifiuti che l’Occidente
dirotta verso l’Asia (il 75% dell’immondizia del Pianeta). La Cina si era già tirata fuori due anni fa. Se venisse riconsegnata all’America, all’Europa, all’Australia anche solo una parte dei rifiuti che hanno mandato in Asia per decenni, queste tre aree sarebbero al collasso. Sul fronte dei “rifiuti umani” invece,
l’Unione Europea paga la Turchia perché tenga chiusi nei suoi “campi profughi” alcuni milioni
di persone che fuggono da guerre e fame. La stessa cosa che viene chiesta alla Libia in cambio di denaro. Pur sapendo
che i campi turchi e quelli libici sono prigioni, quando va bene , e quasi lager
quando va male. Invece di creare un nuovo ordine mondiale le sedi internazionali e i governi degli Stati e d’Europa hanno alimentato egoismi e soprattutto paure, distruggendo il
principio e la consapevolezza dell’interdipendenza che sola poteva e puòportarci a
cercare una convivenza solidale.
Domani infatti potremmo
essere noi a dover migrare, oggi ci sono questi confini ma se davvero milioni di persone dovranno spostarsi per effetto del clima, se interi territori saranno abbandonati,
anche i confini degli Statipotrebbero cambiare. E che senso ha difendere la “nostra” casa se domani potremmo aver
bisogno di andare a casa di altri? Il Pianeta è uno solo e si stanno
restringendo le aree abitabili e le riserve di acqua. Le domande erano a questa altezza già negli anni ‘80 e ‘90 ed
è stato in quegli anni che la Sinistra mondiale e anche italiana ha smesso di cercare lesue risposte. E’ iniziata la lunga stagione della subalternità, come se al liberismo globalizzatonon vi fosse scampo. Salvo qualche limatura. Il risultato, detto molto schematicamente, è che le forze di sinistra
(di qualsiasi matrice fossero)sono state battute quasi ovunque e in alcuni casi
sono addirittura scomparse. Oggi salvo poche eccezioni dominano oligarchi e oligarchie, destre xenofobe ai limiti del razzismo, un centinaio di multinazionali e una cinquantina di Banche d’affari. Come ebbe a dire Nelson Mandela: “la globalizzazione non sarà un processo neutro, essa costituirà un avanzamento per il mondo soltantose diventeranno problemi globali anche la fame, la sanità e l’istruzione negate a miliardi di persone. In caso contrario sarà l’ennesima
coperta stretta che terrà al caldo solo i paesi ricchi, le loro banche e le loro imprese”. Una Sinistra che voglia avere un senso dovrebbe iniziare a riconoscere i suoi errori di analisi e di proposta e riprendere il cammino provando a leggere il mondo come esso veramente è, e non come ce lo rappresentano i poteri più forti. Atterraggio in Italia E dal Pianeta atterriamo bruscamente
in Italia, dove una Sinistra come
si deve, a mio parere, è scomparsa da parecchi anni. Tante sono
state le discussioni sulla fine del Pci e ricorrente l'interrogativo se dopo ci
fosse ancora in Italia lo spazio per una forza di Sinistra. Io ho sempre pensato che ci fosse. La svolta dell’89 fu fatta nel peggiore dei modi.Chi la propose la caricò di
tutti i possibili sensi di colpa. Invece di festeggiare la caduta del Muro, perché noi comunisti italiani non avevamo mai concepito il socialismo come un regime autoritario e
senza democrazia, prevalse lo sconcerto. Potevamo uscire dalle macerie del
muro, come un gatto spesso si salva dal terremoto, e invece restammo sepolti, quasi chesulle nostre spalle gravassero le stesse responsabilità del Pcus e dell'Unione Sovietica. La peculiarità del comunismo italiano e la sua via democratica al
socialismo furono azzerate. Scomparve, da un giorno all’altro, quel
Pci che Gramsci aveva voluto radicalmente diverso dai partiti comunisti dell'est e che Togliatti definì“una giraffa”, a significare quanto fosse unico rispetto ad ogni altro partito comunista.
Non ho mai negato che una svolta fosse necessaria. Il
fatto è che svoltammo senza alcuna fierezza di ciò che
eravamo stati e arrivammo,frastornati e incerti, in una
terra di nessuno. Perdendo durante il viaggio quasi tutti
i nostri migliori “bagagli”: le radici sociali che arrivavano ancora in tutta l’Italia, la buona capacità di analisi della realtà, le strutture territoriali e nei luoghi di lavoro, il volontariato di tante migliaia di iscritti, e soprattutto i due tentativi più innovativi, avvenuti entrambi negli anni 80 : l’incontro
con l’ecologia e quello con il femminismo.
Per uscire dalle macerie infatti non serviva tanto
o solo cambiar nome, come si illusero coloro che lo proposero. Il Pci indipendentemente dal crollo dell’est, segnava il passo già da qualche anno, faticava a innovare la sua cultura politica, tardava a capire letrasformazioni profonde, le nuove idee sullo
sviluppo e i movimenti sociali ( giovanili e femminili) e anche del
mondo del lavoro. Alla fine degli anni ’70 e inizio anni ‘80 infatti qualcosa
si era mosso. Molti ecologisti - ben prima che si formasse ilpartito Verde- si iscrissero al Pci o alla Sinistra Indipendente. Dalla fine degli anni ’70, Laura Conti, Giorgio Nebbia, Antonio Cederna, Carla Ravaioli, Massimo Serafini ,Valerio Calzolaio,Enzo Tiezzi e moltissimi altri dopo di loro, vengono eletti
in Parlamento dal Pci o chiamatinelle Giunte locali.
Dopo il tragico scoppio dell’Icmesa nel 1976 è Laura Conti a battersi per la fondamentale Direttiva Europea Seveso sulla Diossina, che stabilisce il tuttora fondamentale “principio di precauzione”; è Cederna, e con lui un nutrito gruppo di ottimi urbanisti comunisti, a evidenziare quanto dissestata fosse
l’Italia e a proporre il riassetto idrogeologico del territorio come grande e urgente opera pubblica e la necessità di
una nuova Riforma sul regime dei suoli; sono ambientalisti comunisti e sindaci di sinistra ad organizzare i primi scioperi ecologisti per la salvezza dell’Adriatico
negli anni ’80 e ad affrontare il tema della depurazione in Italia; al Congresso di Firenze dell’86, una settimana prima
di Chernobyl, prevalgono per 30 voti i nuclearisti, ma al Referendum dell’anno
dopo il partito cambia posizione su spinta dei suoi ambientalisti e il suo contributo sarà decisivo per vincerlo e per cominciare a proporre un nuovo modello energetico. E sono le donne
comuniste, e tra loro molte femministe, che subito dopo Chernobyl aprono nel 1986 una significativa riflessione nazionale, articolata in varie città e Università, sul tema centrale del limite delle risorse. Coinvolgendo molte scienziate europee. E sono ancora loro, l’anno dopo a proporre un confronto con il femminismo italiano attraverso la Carta delle Donne, un testo che nel linguaggio e nelle proposte superava
la cultura dell’emancipazione e si apriva al tema della libertà femminile in tutte
le sue molte sfaccettature. Dopo la svolta non ripartimmo dalle due più grandi rivoluzioni pacifiche della seconda metà del Novecento. Anzi il Pds e i Ds furono se
possibile meno attenti di quanto non fosse stato il Pci. La battaglia degli ecologisti di sinistra e delle femministe continuò ugualmente ma raggiungere
risultati significativi fu difficilissimo. Al momento della
svolta avevamo ancora gruppinumerosi
e significativi di ecologisti e di femministe e buone elaborazioni
e proposte per tentare di diventare un partito eco-socialista e femminista. Ma la maggioranza del gruppo dirigente scelse di essere una Sinistra senza alcun profilo distinguibile. Poi dai primi anni 2000, anche quel poco che
restava della Sinistra dopo l’89 si sgretolaulteriormente: politicismi esasperati, l’illusione
della vocazione maggioritaria, i “nuovi contenitori”, il partito leggero. Il tutto
si conclude ,nel 2007,con la nascita del Pd, unendo malamente ciò che a mio parere andava tenuto distinto: un Partito Liberaldemocratico e un Partito di Sinistra .
Anche chi non aderì al Pd porta la pesante responsabilità di non aver dato vita, in 12 anni, a un qualche soggetto politico con un minimo di senso. Quello che si è visto sono state un numero imprecisato di liste elettorali, fatte e disfatte il giorno dopo le elezioni. E inutili
posizionamentidi alcune persone (andate e ritorni) con gli occhi rivolti sempre a quel che faceva o non faceva il Pd.E
tra un governo Berlusconi , un Governo Monti e tre governi del Pd (Letta, Renzi , Gentiloni) siamo al 2018/19. Oggi una forza xenofoba e di destra come la Lega viene stimata al 36%, Meloni e Berlusconi, pronti ad allearsi con Salvini, fanno circa il 14%, il M5S che ha fatto dell’antipolitica
e del populismo la sua ragion d’essere e governa con la Lega sta attorno
al 20% . In quello che dovrebbe essere il campo alternativo c’è un Pd attorno al 22% , sempre in cerca di se stesso e del suo
profilo e pezzettini di sinistra che ,insieme o divisi, raccattano a mala pena il 3%. Che l’Italia abbia sterzato pesantemente a destra mi pare evidente. Che sia senza sinistra altrettanto. Trarre fuori realtà dalla rappresentazione Attraverso quali strumenti si costruisce e si consolida il potere reale di un gruppo dominante o di un sistema economico? Mi pare di poter dire che sempre
più spesso passa attraverso la rappresentazione della realtà che viene manipolata a seconda del risultato che si vuole ottenere. Ad esempio, c’è la crisi economica, ma si può rappresentare la realtà come se non ci fosse;impieghiamo gli immigrati come operai nelle fabbriche del nord est, nelle campagne del sud e in oltre un milione di
nostre case per badare ai nostri anziani ma diciamo che non vogliamo immigrati e lasciamo quelli che lavorano senza i diritti fondamentali .
Come scriveva Simone Weil nel suo
libro “ La prima radice”: “ la paura e la speranza , generate dalle minacce e dalle promesse, sono il mezzo più
grossolano, da sempre adoperato da chi vuole perpetuare il suo potere” . La paura perché ottunde e paralizza, la speranza perché dopo la paura il bisogno più immediato
è quello della rassicurazione. Dal che possiamo dedurre già una prima importantissima considerazione: la buona politica dovrebbe essere quella
che cerca di non spaventare nessuno. La destre invece han costruito incubi e sogni e per anni l’opinione pubblica ha sognato quei sogni e ha avuto quegli incubi. Le destre hanlavorato sulla paura nelle sue molteplici
forme: degli immigrati, della Cina che ci inghiottirà, dei poveri che vengono a mangiare nel nostro piatto, dei diversi, sulla paura per l’invasione del cortile di casa nostra, per lo stravolgimento della nostra cultura originaria, del nostro
Dio, sulla paura di essere aggrediti e violentati, non dall’uomo più vicino ma dal più straniero. E su quelle paure hanno costruito in buona parte le loro vittorie
elettorali passate e presenti, insieme a una deriva securitaria e xenofoba massiccia, che oggi sfiora il razzismo.
Nascondendo la realtà povera di un terzo del mondo, le molte guerre alimentate conle tante armi vendute ad aggressori e ad aggrediti,
i cambiamenti climatici, i diritti negati, le ingiustizie crescenti, il ritorno della schiavitù, risultati inquietanti di un liberismo fallimentare. Poi la crisi del 2008 ( una delle più lunghe e generalizzate) mette a nudo ciò che alcuni economisti e pochi politici dicevano già da anni: chi si prende il futuro di miliardi di donne e uomini, i risparmi, i diritti, la casa, la vita concreta e
le risorse ambientali primarie sono la grande finanza speculativa,
le banche d’affari, le società di intermediazione; le multinazionali di un mercato drogato e senza regole; le spese militari per armi inutili o addirittura tecnicamente sbagliate ( come
gli F35) e il traffico di armi per alimentare decine di guerre. Insomma chi ci
ruba il futuro non sono i migranti. Eppure chi ha mai temuto le banche d’affari con le filiali sotto casa nostra che vendevano a tanti risparmiatori titoli tossici? O la grande finanzaspeculativa e un mercato senza alcuna regola? La paura è stata indirizzata dove si voleva che andasse. E nessuna Sinistra è riuscita a trarre fuori la realtà dalla rappresentazione che le destrene hanno fatto per anni e anni. Al contrario tante volte ha inseguito o ricopiato quella rappresentazione. Trarre fuori realtà dalla rappresentazione che ne viene data, questo invece ha fatto e fa ogni giorno il femminismo: trarre fuori corpi,
materia viva, libertà, politica, relazioni , vita reale.
Credo che la Sinistra non esista
più da quando ha rinunciato ad una sua lettura della realtà, e dunque anche al proposito di cambiarla, rendendola migliore. Se non si ha più la forza
progettuale che serve, se la cultura politica èstantia e le pratiche politiche logore ci si dovrebbe rivolgere altrove, cercare in altri territori, andare dove non si è mai stati e soprattutto dove si scorge il nascere di pratiche diverse, di forze , culture e soggettività nuove. Se la sinistra vuole tornare a dire la sua non può prescindere dal fatto che le principali innovazioni sono venute proprio dal femminismo
e dall’ecologia. In questi mesi, sotto la spinta
di centinaia di migliaia di ragazzi, molti si dicono convinti che affrontare
la questione del cambio climatico sia una necessità. I ragazzini e le ragazzine fanno
tutta la loro parte, temono per il loro futuro e manifestano in tanti paesi, lanciano allarmi e ci ritengono responsabili di non aver mantenuto gli impegni presi. Nelle stesse settimane in molte parti del mondo e anche in molti paesi
europei diversi movimenti delle donne, gruppi femministi e il movimento Non Una di Meno si sono fatti sentire l’8 Marzo con la loro piattaforma
generale, con una grande e costante battaglia contro la violenza maschile e contro il tentativo di colpire libertà femminile e autodeterminazione come è accaduto negli Stati Uniti, nell’America Latina, in Spagna, Polonia e Ungheria. Ma per cambiare le decisioni di governi nazionali e sovranazionali questi movimenti hanno bisogno, come
si diceva una volta, di trovare sponde politiche solide. E allora la domanda secondo me è questa: c’è un partito in Italia (e uno schieramento politico europeo)
disposto a cambiare pelle, profilo e dirigenti e a mettersi in discussione fino a diventare una forza eco-socialista e femminista? Ci sono sindacati
capaci di rispondere alla loro crisi, da anni cosi evidente, assumendo come centrali i temi della qualità sociale e ambientale dello sviluppo? Perché crescano giustizia sociale, libertà
femminile, servizi materiali e immateriali alla persona, alla città e al territorio, energie rinnovabili, merci su ferro. E decrescano la concentrazione
di ricchezza, il razzismo e le nuove schiavitù, la violenza sessuale, l’uso dei combustibili fossili, l’impermeabilizzazione del suolo.
La scelta non è tra crescita e decrescita
Tra crescita e decrescita mi
sono sempre sentita stretta: un dilemma che non mi aiuta mai a risolvere i
problemi così come li vedo nella realtà. Credo che una Sinistra nuova sarà quella in grado di scegliere cosa può ancora crescere(svilupparsi) e cosa invece non può più crescere, perché il limite e la finitezza delle risorse sono una realtà e se ne sono accorti finalmente anche alcuni economisti. Il tema mi
pare sia quello della qualità sociale e ambientale dello sviluppo.
In questa cornice anche il lavoro e l'occupazione si trasformeranno: aumenteranno in alcuni settori mentre in altri diminuiranno, e figure lavorative oggi
inedite si affermeranno mentre altre usciranno di scena.
Se procediamo per grandi settori ( farò alcuni esempi molto limitati) direi che sicuramente
devono e possono svilupparsi tutti i servizi materiali e immateriali al territorio, alla città e alla persona , il trasporto di merci e persone su ferro e mare, la manutenzione
e il recupero, le reti di qualsiasi genere. Mentre non possono più crescere l'industria automobilistica com’è stata finora, l'edilizia che costruisce ex novo e speculativa, il commercio basato solo sui grandi centri commerciali, il trasporto su gomma in tutte le sue forme, il consumo di territorio agricolo, la cementificazione e impermeabilizzazione del suolo.
Sono servizi al territorio: il riassetto idrogeologico e la messa in sicurezza di tutte le aree a rischio, la rinaturalizzazione dei fiumi, il ristabilimento delle aree golenali, la riforestazione, lo spostamento del 30-40 % delle merci dalla gomma al ferro.
Sono servizi alla città: un ciclo dei rifiuti
capace di arrivare al recupero e al riciclaggio di circa l'80% dei rifiuti prodotti, trasporti pubblici di massa su ferro, piste ciclabili, reti idriche e fognarie rinnovate, la messa in sicurezza del patrimonio edilizio
in area sismica ma in genere in tutte le aree del paese perché il nostro patrimonio edilizio è bisognoso dovunque di manutenzione, se è vero che ogni giorno 10 milioni di italiani entrano in scuole uffici e ospedali che non hanno il certificato di agibilità statica aggiornato.
Sono servizi alla persona: tutti i servizi di cura alle persone anziane, ai bambini e ai disabili, ma anche tutte le strutture e i servizi culturali e associativi, che contribuiscono al rafforzamento del tessuto connettivo di una città. Sulla
base di questi pochi esempi è più chiaro come cambi il lavoro e quali altre figure di lavoratori e lavoratrici possano nascere: in un sistema di trasporto
che tolga il 30-40% di merci dalla gomma, la figura del camionista andrebbe ad esaurimento e si trasformerebbe in quella
di un piccolo imprenditore che, invece di guidare il suo camion per ore ed ore, possiede alcuni containers e si occupa, nei centri intermodali, di caricarli e scaricarli dai treni e si preoccupa della qualità e puntualità del servizio. Questa riconversione significherebbe diminuire le emissioni di CO2 arrivando finalmente all’obiettivo che ci prefiggiamo da oltre 20anni. Inoltre togliendo il 40% di mezzi pesanti dalle strade, ridurremmo in modo sostanziale gli incidenti, aumentandola sicurezza stradale e diminuendo di
conseguenza la spesa sanitaria del Paese. Anche la figura dell'operaio edile e l’impresa classica di costruzioni si trasformerebbero in una figura
professionale e in imprese capaci di fare recupero e manutenzione più che costruzione ex novo, manutenzione non solo del patrimonio edilizio ma anche del territorio ( aprendo finalmente il cantiere della più grande opera pubblica italiana che è sicuramente il riassetto idrogeologico) , un manutentore più che un muratore, un riparatore più che un costruttore, lavoratori e tecnici che mentre
riparano immettono anche nuove tecnologie di risparmio energetico e idrico,
per esempio. Anche l’aumento del numero di imprese che si occupanodi
servizi materiali e immateriali (cura, assistenza ,cultura, formazione e informazione)produrrebbero anch’esse molte figure professionali inedite ( in qualche modo già
lo vediamo da anni per gli anziani, anche se il termine badanti a me
sembra assurdo e lo sostituirei senz’altro con addetti/e ai servizi di cura).
Sono andata nel dettaglio per dare un’idea
di ciò che per me è riconversione dello sviluppo. Ma alla stessa maniera potremmo ragionare su energia, chimica, agricoltura e bonifica dei siti inquinati, un capitolo che in Italia non si apre mai ma riguarda quasi il 4% del territorio nazionale e 9mln di abitanti
che vivono in condizioni di rischio altissimo. Dunque la Sinistra che vorrei
dovrebbe avere una sua lettura del mondo eun’idea precisa dello sviluppo, che vuol dire cosa scegliere e cosa no. E in questa idea del mondo il rapporto tra i sessi dovrebbe essere incentrato sulla libertà femminile.
Solo con questo respiro, io credo, ritroverebbero forza anche i temi della giustizia sociale e della redistribuzione della ricchezza
che oggi paiono non averne più. La Sinistra delle piccole correzioni, degli aggiustamenti, quella che così facendo si è rivelata subalterna al liberismo, ha perso finoratutto quello che poteva perdere. Bisognerebbe trovare il coraggio di riconoscerlo. Fulvia Bandoli
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